E’ il 2014 : quattro anni dopo la rivoluzione tunisina e la caduta del presidente Zine El Abidine Ben Ali, la nostalgia del dittatore si fa sentire tra la popolazione tunisina. Ad indagare questo fenomeno sociale, Amine Boufaied, realizzatore e Lilia Blaise, giornalista franco-tunisina, con il loro documentario 7 vite, girato durante l’estate 2014. «L’idea – spiega Boufaied – è nata da un sentimento di frustazione che entrambi abbiamo avuto nel momento in cui ci siamo accorti che, nonostante la Rivoluzione e malgrado il regime di Ben Ali abbia rovinato il nostro Paese per 23 anni, c’erano sempre più persone che avevano nostalgia del dittatore e rimpiangevano gli anni passati sotto di lui. Questo fenomeno sempre più crescente ci ha spinto ad indagare, per cercare di comprendere le motivazioni di questa nostalgia da parte di molti tunisini di diversi ceti sociali».
Il titolo riassume il concetto del film: rimanda al mito delle sette vite del gatto. Il numero 7 è la cifra che ha rappresentato il culto della personalità di Ben Ali: il 7 novembre 1987 è la data simbolo in cui, spodestato Bourguiba, Ben Ali assunse il potere; invece di porre delle statue, a ogni rotonda era presente il numero 7. Il punto di partenza del film è il salone del parrucchiere “Chez Salem”, che si trova nel centro di Tunisi, a 500 metri dall’Avenue Habib Bourguiba, l’arteria della capitale tunisina dove si sono svolte le manifestazioni contro il dittatore entrate nella Storia. La figura del barbiere, così come quella del taxista, rappresenta una sorta di barometro dell’opinione pubblica e delle tensioni popolari. Il personaggio del barbiere e dei suoi clienti diventa così la colonna portante del film, a cui si alternano interviste a gente comune e persone note e meno note, come il filosofo Youssef Seddik, la comica Anissa Daoud, il ricercatore e specialista dei media Riadh Ferjani, la psichiatra Saida Douki e Mokhtar Yahiaoui, giudice e militante sotto Ben Ali.
Tra la gente comune, chi confida «Tutto andava meglio prima con Ben Alì», e chi tocca temi come quello della tortura: «Abbiamo tutti un vicino, un cugino, che è stato vittima della repressione, ma la paura e la vergogna impediscono di riconoscere ciò». Un uomo, militante ai tempi del regime, mostra due fotografie che lo ritraggono: prima dell’arresto, in cui si vede un uomo giovane e pieno di vita, mentre la seconda mostra un uomo invecchiato, dopo 18 anni passati in galera. Il film si conclude con il padre di un “martire”, che non aspetta altro che venga fatta giustizia: «Perché dovrei volere dei soldi? Per mangiare? Ho perso il gusto del cibo da quando mio figlio è morto. Quello che chiedo, è che si prenda coscienza di quello che è successo. Mio figlio ormai è morto, era un essere umano come tutti gli altri. Perché non ha trovato giustizia?».
Le reazioni del pubblico alla visione del film sono state molto diverse: «È un soggetto molto delicato – continua Boufaied -: sulla pagina facebook dedicata alla promozione del film abbiamo ricevuto anche dei messaggi di insulti, ci hanno considerato dei traditori della Rivoluzione, altri invece hanno apprezzato. Parlare di Ben Ali è ancora un tabù e qualcuno ha mal interpretato lo scopo del nostro film: non si parla né di Ben Ali, né della Rivoluzione, ma del fenomeno sociale della nostalgia del periodo della dittatura, che si lega all’immagine di Ben Ali».
E aggiunge: «Qualche mese prima delle elezioni del 2014 certe persone non credevano a questa nostalgia, ma i risultati dimostrano che si tratta proprio di un processo nostalgico: talmente il popolo non ne poteva più dei politici al potere che in maniera cosciente o meno, ha scelto di ritornare indietro. Il partito che è al potere ora (nel 2015, anno dell’intervista, era Nidaa Tounes, ndr) è formato da dei residui del vecchio regime e Beji Caid Essebsi ha lavorato con Bourguiba e Ben Ali. Io spero che tra una decina di anni questo film possa ricordare ai tunisini come si costruisce una dittatura e che il popolo capisca che essere cittadini, essere presidenti di se stessi è necessario per andare avanti. Non abbiamo bisogno di un leader per farlo».
L’articolo originale è stato pubblicato nel 2015 sul blog La città Nuova del Corriere della Sera.
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