Arbia Ben Charfeddine, fondatrice di Atyhpika: “Il mio brand è storia, cultura, identità”

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Sogno sin da bambina di avere un mio brand: con Atyhpika tutto questo si è realizzato”. Arbia Ben Charfeddine, 29 anni, Italo tunisina, una forte passione per i gioielli, racconta a L’altra Tunisia come ha deciso di creare e lanciare questa sua linea, un mix di Tunisia e Italia, riflesso di questa sua duplice identità: “In terza media avrei voluto iscrivermi a una scuola di moda, ma mia mamma non era molto d’accordo: era una scuola professionale e, come tutti i figli di immigrati, dobbiamo avere una sorta di rivalsa rispetto ai nostri genitori. Così ho frequentato l’istituto tecnico commerciale, per poi laurearmi a Parigi in Lingue straniere e gestione di impresa, ma sempre portando avanti questa mia passione”.

Un’identità in bilico e tante discriminazioni

Nata in provincia di Pavia e cresciuta in provincia di Milano, frequentare l’università a Parigi, “città multietnica”, si rivela “un altro mondo”. E a proposito di identità, racconta: “Quando sei bambino non sai chi sei: nel mio caso, i miei genitori sono tunisini, ma a scuola parlavo italiano, crescevo con i miei compagni italiani eppure mi sentivo domandare da dove venissi, ma sono nata qui! Gli episodi discriminatori ci sono sempre stati purtroppo, soprattutto alle superiori. Ricordo che un giorno un compagno mi disse ridendo che aveva bruciato un Corano. E anche in Francia, nonostante siano più aperti da questo punto di vista, mi è capitato che quando dicevo di essere italiana, mi chiedessero da dove venissi. Ora non ho più questi problemi identitari: so chi sono, sono italiana e tunisina, 50 e 50, e impongo questa mia identità, che piaccia o meno. Adoro la Tunisia, ma sono nata e cresciuta in Italia, sono anche italiana: nessuno può dirmi che non lo sia.

Da bambini si è più fragili da questo punto di vista. Ad ogni modo, quando ero più piccola, l’unico momento in cui sentivo di avere un’identità era sulla nave che mi portava dall’Italia alla Tunisia, in mezzo al Mediterraneo. Adoro andare in Tunisia in nave: lì incontri tunisini che provengono da ogni parte d’Europa, vedi nei loro occhi all’andata l’emozione e la felicità, mentre al ritorno la malinconia. I miei famigliari sono originari di Hamma (Gabes), ma i miei genitori sono nati a Tunisi. In Tunisia ero vista come italiana: ricordo che mi dicevano di ripetere certe frasi, come se non capissi il tunisino. A 19 anni sono andata a Parigi a studiare all’università: in Italia subivo razzismo e discriminazioni, mentre in Francia vedevo multiculturalismo e tolleranza. Da persona nata in Italia, quando vado in Tunisia sono felicissima, come se fossi cresciuta là, ma mi manca l’Italia, poi quando riparto mi manca già la Tunisia. C’è questo sentimento di mancanza perenne, che è difficile da spiegare a parole. Italia e Tunisia per me sono entrambe casa: questo aspetto è una ricchezza, permette di aprirti al mondo.

L’università in Francia: “Tutto un altro mondo”

Sono rimasta in Francia otto anni: sono stati comunque tosti, molto duri, ma mi hanno insegnato tanto. In classe eravamo ragazzi di origine tunisina, marocchina, portoghese, di tutti i Paesi immaginabili. Il primo mese in università ho incontrato degli italiani nati in Francia, eravamo in mensa, mi dicono “attenta, quello è hallouf” (maiale, ndr), non me lo sarei aspettato. E’ proprio tutto un altro mondo. Mentre studiavo, lavoravo anche, lavori da studente, di tutto e di più per mantenermi, durante il Master ho lavorato anche in un centro di accoglienza.  Con l’arrivo del Covid, causa lavoro tornavo molto tardi la sera, non c’era nessuno in giro, è stato uno shock. Facevo anche più fatica a trovare nuovi lavori: chiedevano le mie origini.

Dopo poco tempo mi hanno diagnosticato una malattia e ho cominciato a vedere le cose in altro modo e a decidere di rientrare in Italia: per me è sempre casa e pace. Mi sono curata in Francia, quindi per un periodo ho fatto la spola con l’Italia, e piano piano ho riportato tutte le mie cose e a gennaio 2023 sono ritornata a viverci. Trovo che rispetto a prima l’Italia sia cambiata in positivo: i giovani di oggi sono molto più aperti, c’è curiosità verso l’altro. Ora lavoro in ambito finanziario e contabilità, una nuova esperienza per me. Credo che non sia il nostro diploma a definire il nostro futuro. Non l’avrei detto, ma è stato più facile qui trovare lavoro: forse anche perché in Francia era il periodo del Covid, non saprei. Ma ho notato più apertura anche per quanto riguarda i colloqui.

Una creatività che riflette l’identità italiana e tunisina, tra tradizione e modernità

Fin da piccola avevo in testa di realizzare qualcosa di mio, e ho sempre creato a mano, dalle gonne con la kefia, alle illustrazioni. In Francia tutti i giovani, anche se figli di immigrati in quartieri popolari, si lanciavano in progetti. Mi sono detta che valeva la pena provarci. Per un periodo ho studiato come potessi realizzare la mia idea: per le Tote bag sono andata nella medina di Tunisi, ho trovato due tessuti per i quali ho avuto un colpo di fulmine e ho fatto realizzare una pochette a partire da un tappeto amazigh. Il sarto mi dava della pazza, perché è un tessuto che non si usa normalmente per cucire, ma sono andata avanti con la mia idea e le ho cucite con questo tessuto e raso di seta: così è nata la “ilim pochette”. Per quanto riguarda i gioielli, ho cominciato con i pendenti mahboub, con le scritte in arabo, e con quelli con la lira ottomana. Gli orecchini, gli anelli e i pendenti sono in rame placcato oro, realizzati da artigiani locali. Per la collana “trendy”, ho preso le catene di stoffa usate per le tende e i bottoni tipici”.

Braccialetti, collane, orecchini, spille e borse le creazioni realizzate, con qualche pezzo anche unico. Non poteva mancare “l’harissa vip box”, un portagioielli che riproduce la scatoletta dell’harissa tunisina, immancabile nelle case di ogni famiglia. Ed è proprio in una scatola di harissa formato gigante, che Arbia porta con sé gli strumenti necessari per realizzare i suoi gioielli. “I miei gioielli riflettono la mia identità: sono un 50 e 50, un mix di Tunisia e di Italia, soprattutto Italia del sud, che amo molto. Ho voluto dare il nome Atyhpika perché mi sono sempre sentita diversa e sono stata discriminata per ciò: a 14 anni un’amica mi disse di non indossare così tanti braccialetti, perché l’avrei fatta vergognare. Ora non ho più paura del pregiudizio e del giudizio della gente, ma oso, è l’esatto contrario. In ogni gioiello c’è un tocco famigliare o un richiamo alla Storia, come quello con la lira, l’antica moneta ottomana, o la spilla, ispirata da una collana con la catena rihana che avevo acquistato ad Hammamet. Un gioiello è un dettaglio che cambia l’outfit. Le mie creazioni non voglio tenerle per me, ma condividerle: ogni gioiello è storia, identità, cultura, attraverso il quale mandare un messaggio”.

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