Due anni dopo il 25 luglio 2021: la Tunisia è ancora un laboratorio

la Tunisia – che dopo la Rivoluzione del 2011 venne definita un “laboratorio politico” della transizione democratica, resta un laboratorio anche oggi, per vedere dal vivo come si costruisce una dittatura.
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Ma perché i Tunisini che per dieci anni parlavano di politica dalla mattina alla sera e criticavano ogni mossa dei politici oggi la politica l’hanno cancellata dai loro discorsi? Su Facebook si parla solo delle Giornate Cinematografiche di Cartagine …” A porsi la domanda è Majdi Karbai, ex parlamentare eletto nelle file di Attayar Dimoukratie (Corrente democratica), un partito che stava all’opposizione prima che Kais Saied sciogliesse il Parlamento e che oggi approva incondizionatamente la presa di potere di quest’ultimo.  Karbai è uscito da Attayr proprio per dissenso sul 25 luglio: “Si tratta di un colpo di stato” dice senza mezzi termini. Se torna in Tunisia – Karbai è stato eletto nella circoscrizione italiana e in Italia attualmente risiede – rischia l’arresto per “complotto contro lo Stato”. A due anni dalla presa di potere di Kais Saied, dare una risposta alla domanda che pone Karbai può aiutare non solo a immaginare scenari futuri per la Tunisia, ma anche a a capire i meccanismi di consolidamento di un regime autoritario. Da questo punto di vista la Tunisia – che dopo la Rivoluzione del 2011 venne definita un “laboratorio politico” della transizione democratica – resta un laboratorio anche oggi, per vedere dal vivo come si costruisce una dittatura.

Ricordiamo che nell’ottobre 2011 si tennero le prime elezioni libere nella storia della Tunisia e diedero un risultato inaspettato e sgradito a buona parte delle sue élites intellettuali e delle sue classi medie culturalmente più vicine all’Europa. La maggioranza dei voti andò ad Ennadha, un partito i cui valori si ispirano all’islam. Nei nuovi centri di potere – Parlamento e governo – comparirono nuovi strati sociali: venivano dalle periferie urbane e dalle aree interne del paese, parlavano arabo anziché francese, vestivano con abiti tradizionali, le donne portavano il hijab. Tutte cose mal digerite dalle vecchie élites, ma anche dal nuovo ceto medio che ad esse si sforzava di assomigliare. Subito dopo le elezioni partirono i tentativi di destabilizzare il Paese e di delegittimare il governo attraverso omicidi politici ed attentati terroristici da un lato, campagne sui media mainstream e social dall’altro. Gli stessi media che avevano inventato la “rivoluzione dei gelsomini” e osannato il “laboratorio democratico” oggi hanno coniato l’espressione “decennio nero” per parlare dei dieci anni post 2011. E sulla sponda nord del Mediterraneo – da sempre assuefatta a vedere la Tunisia con gli occhi delle vecchie élites – il supporto dato al Paese durante i nove mesi di gestazione che hanno preparato le elezioni è scemato non appena le urne sono state aperte. L’ostilità di forze politiche interne ed esterne ad una democrazia d’ispirazione islamica ha spianato la strada alla presa di potere di Kais Saied e spiega l’immediata apertura di credito di cui egli ha goduto tanto nel paese quanto in Europa. 

La giovane democrazia tunisina, che era riuscita a reggere ai tentativi di rovesciamento violenti, si è trovata disarmata di fronte all’azione “morbida” della propaganda ideologica. Questa ha sfruttato appieno le difficoltà economiche del Paese: quelle che già esistevano ai tempi di Ben Ali e quelle legate inevitabilmente al sollevamento rivoluzionario, alle quali si sono poi aggiunte quelle determinate dalla stagione del terrorismo, dalla crisi economica mondiale e infine dalla pandemia. Nascono in quegli anni due formulazioni che nell’Italia post-fascista si sarebbero chiamate “qualunquiste”: “La democrazia non si mangia” e “La libertà d’espressione è l’unica cosa che abbiamo messo in tasca”. Quanto siano stati efficaci lo dimostra il fatto che la notte del 25 luglio 2021 solo un piccolo manipolo di deputati e militanti di Ennahdha, capeggiati dall’anziano leader e speaker del parlamento Rached Ghannuchi, abbia protestato davanti all’ARP presidiata dai militari. 

Oggi non c’è un solo dato che dimostri, dopo quella data, una qualche inversione dei trend socio-economici  negativi. Il tasso di disoccupazione nel primo semestre del 2023 si attesta sul 16%, quello dei giovani tra i 15 e i 24 anni arriva al 40%, quello dei diplomati sul 23% . Rispetto al 2020 il primo dato è più o meno stabile, il secondo è nettamente peggiorato, il terzo è lievemente migliorato: in due anni non vi è stato sostanzialmente nessun cambiamento rispetto alla situazione precedente. E il tasso di inflazione, che supera la media del 10% ma va oltre il 15% per i prodotti alimentari, appare totalmente fuori controllo. In quanto alle riforme istituzionali promulgate da Kais Saied, esse incontrano l’indifferenza o l’ostilità della popolazione: appena un terzo dei Tunisini ha votato al referendum sulla nuova Costituzione, mentre per il nuovo Parlamento sono andati a votare meno del 10%. Kais Saied, insomma, nei due anni in cui ha avuto i pieni poteri, ha fatto ciò di cui accusava i suoi predecessori: invece di metter mano all’economia ha ridisegnato le istituzioni politiche.

Torniamo allora alla domanda: perché adesso la gente tace? A chiederlo in giro si incontra ora negazionismo (“di che problemi state parlando?”) ora fideismo (“lui sta cambiando, lasciatelo lavorare”), ma su tutto domina una spiegazione: la gente ha paura. Appare però evidente che nei discorsi di Kais Saied vi sono alcuni punti chiave ricorrenti ai quali l’opinione pubblica è sensibile: la denuncia dei corrotti e degli speculatori che affondano l’economia e fanno mancare i beni di prima necessità; quella delle ingerenze dei Paesi occidentali negli affari interni della Tunisia in nome della difesa della democrazia e dei diritti umani; quella dei diktat del Fondo Monetario Internazionale che vuole imporre un liberismo selvaggio e affogare il Paese nel debito; e quella degli islamisti che per dieci anni si sono arricchiti a spese del popolo. Hanno per fine il compattamento dell’opinione pubblica intorno a nemici interni ed esterni. Si tratta della ricetta classica delle autocrazie: si parte da un disagio reale, si trova un colpevole, si lascia sperare che una volta il colpevole assicurato alla giustizia le cose cambieranno. Da qui arresti, denunce, condanne su cui gli intimoriti tacciono mentre i soddisfatti applaudono.

Non è un caso che – dopo l’ondata di arresti degli islamisti culminata con quello di Ghannushi – Kais Saied abbia sentito il bisogno di offrire all’opinione pubblica un nuovo nemico nei migranti africani che minacciano “l’identità araba e islamica” della Tunisia. La repentina ondata di sdegno con la quale le istituzioni europee e la Banca Mondiale hanno accolto queste dichiarazioni è presto rientrata e Kais Saied è stato ricevuto con tutti gli onori al congresso internazionale su Sviluppo e Migrazioni tenutosi a Roma il 23 luglio, due giorni prima dell’anniversario del colpo di stato che ha messo la parola fine all’esperimento democratico in Tunisia e che nessuno ha ricordato. Di nuovo, allora, la domanda: come mai questo silenzio assordante, non solo dentro il Paese ma anche fuori?

Rispondono due eminenti politologi. Il tunisino Hamadi Redissi: “Nella mente di una gran parte dei Tunisini, il capo di stato li ha sbarazzati dell’islam politico, accusato di essere il solo responsabile [della crisi] per quanto abbia sempre governato insieme a formazioni laiche.” (Le Figaro, 15-5-2023). E Nadia Urbinati, docente alla Columbia University: “E’ come se le democrazie avessero bisogno di essere circondate da non-democrazie per riuscire a proteggere se stesse” (Il Domani, 20-7-2023). Non-democrazie non-islamiche ci dice la parabola delle “primavere arabe” vista con gli occhi dell’Occidente. Eppure, osserva ancora Redissi, “dire che l’islam politico è finito è una conclusione un tantino frettolosa”: l’UGTE, il sindacato studentesco legato ad Ennahdha, ha appena vinto, per l’ennesima volta, le elezioni. E ciò nonostante il fatto che proprio tra gli studenti Kais Saied avesse reclutato i suoi primi sostenitori. 

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