“Gabes, la città che non respira più”: intervista a Imen Arfaoui, geologa e ricercatrice

6 minuti

Vedevo l’atmosfera… l’aria era diventata completamente gialla, e a un certo punto non si riusciva più a respirare normalmente. Vedevo tutte le ragazze con i foulard, e persino gli uomini: prendevano dei foulard e se li avvolgevano intorno al viso, sul naso. Continuavano a fare la loro vita normalmente — facevano la spesa, andavano al mercato, all’università —, ma con il foulard sul naso. Quando ho chiesto il motivo, mi hanno risposto: Bahara, Bahara, che significa “zolfo”. In realtà, il gruppo chimico che tratta il fosfato lo fa con acidi e solfuri, quindi quello è un residuo, un rifiuto che satura l’atmosfera con altri scarti. È come un’accumulazione, e poi succede tutto molto in fretta: si formano le nuvole, e subito dopo arriva la pioggia, una pioggia completamente gialla: è la pioggia acida che cade poi sul terreno.

La vita quotidiana in una città che soffoca

Ho abitato a Gabes per motivi di studio dal 2016 al 2018: mi ero iscritta all’Università locale per un dottorato che ho iniziato lì, in un laboratorio di geochimica organica del dipartimento di geologia. Il mio campo di ricerca non riguardava però il fosfogesso o il fosfato, ma la chimica organica, quindi la sedimentologia, un campo connesso, perché ha comunque a che fare con le risorse naturali. La realtà di Gabes era nella vita quotidiana: i miei colleghi mi dicevano che cercano spesso di evitare di mangiare soprattutto il prezzemolo e il sedano, perché assorbono molto più rapidamente gli scarti, quindi lo zolfo: e questo ha un impatto sull’essere umano, sul nostro corpo. Io chiedevo a mia madre di prepararmi dei piatti, di congelarli e di mandarmeli con il louage da Tunisi a Gabès, così da evitare di mangiare cibo acquistato sul posto. Perché in realtà è un ciclo: il mare, la terra, l’aria, tutto è collegato. E questo spiega i casi recenti di soffocamento tra studenti e giovani: la popolazione ha tollerato a lungo la situazione, ma ora l’aria è diventata così satura che i casi si ripetono molto più spesso di prima.

È da quando ho vissuto lì che ho cominciato a interessarmi alla questione:  vivendo a Tunisi non ne sapevo nulla, non sapevo che esistesse una forma di inquinamento a Gabes. Eppure è una città molto bella, con un potenziale enorme, sia dal punto di vista ambientale che turistico, ma anche i turisti ormai la evitano. Io stessa non andavo al mare, anche se gli abitanti di Gabes continuavano ad andarci. Ho avuto due colleghi che hanno lavorato sul fosfogesso, per la loro tesi di dottorato. Uno di loro ha persino proposto la possibilità di valorizzare il fosfogesso, presentando quest’idea ai gruppi chimici, ma gli è stato risposto che richiedeva troppo denaro e che non avevano la possibilità di investire così tanto per poterla applicare concretamente.

Cos’è il fosfogesso e le conseguenze sull’ambiente 

Il fosfogesso proviene dal fosfato, più precisamente dal trattamento del fosfato. Quando si estrae il fosfato, infatti, lo si tratta con acidi per ottenere fertilizzanti chimici che verranno poi utilizzati. Questi fertilizzanti chimici rappresentano una fonte di guadagno economico, perché vengono venduti — nel settore agricolo, alle industrie chimiche, e così via. Dopo il trattamento, si estraggono dunque gli elementi utili per i fertilizzanti chimici, ma restano dei rifiuti. E questi rifiuti, di cosa sono composti principalmente? Di gesso — da qui il nome fosfogesso — ma anche di residui di acidi usati nel trattamento, di zolfo e di solfuri. Questi ultimi, insieme agli acidi, sono molto nocivi per la natura e per l’uomo, soprattutto a livello del suolo; inoltre contengono anche metalli pesanti.

Questi tre elementi — metalli pesanti, solfuri e acidi — sono estremamente pericolosi quando vengono rilasciati in grandi quantità nell’ambiente. In piccole quantità, a volte, possono perfino essere tollerati dalla terra, ma quando si tratta di quantità enormi, come quelle contenute nei rifiuti di fosfogesso prodotti dal Gruppo Chimico, diventano altamente nocivi, diventano davvero molto dannosi per la natura, per l’ambiente e per l’essere umano. Ricordiamoci che se la natura non ha confini, nemmeno l’inquinamento ne ha:  se c’è inquinamento a Gabes, e da Gabes provengono prodotti alimentari che poi vengono venduti a Tunisi, anche le persone di Tunisi ne subiscono gli effetti. È dunque una questione che riguarda tutti i tunisini.

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Un post condiviso da 𝗬𝗮𝘀𝘀𝗶𝗻𝗲 𝗕𝗲𝗻 𝗖𝗵𝗲𝗶𝗸𝗵 (@yass.psd01)

L’errore di fondo: non pensare al domani

E penso anche che, sin dal giorno in cui hanno aperto il Gruppo chimico, non avessero una visione d’insieme. Essendo geologa, lavoro con molti Paesi all’estero, tra cui il Congo. Faccio un esempio che non riguarda esattamente la stessa cosa, ma che può dare un’idea. Io mi occupo di palinologia, una specialità delle scienze della Terra: si studiano i microfossili e i granelli di polline. Per ottenere questi campioni, bisogna trattarli con acidi. Ovviamente non è la stessa scala: utilizziamo una quantità di acido molto inferiore. In Belgio, quando utilizziamo questo metodo con i colleghi, i residui acidi vengono raccolti in un contenitore adatto, poi un’azienda specializzata viene a recuperarli per trattarli prima di smaltirli nella natura, proprio per evitare di inquinare. In Congo, invece, succede la stessa cosa dal punto di vista del processo, ma gettano tutto direttamente nella natura. Ed è esattamente quello che è stato fatto in Tunisia. 

È questa la differenza tra un Paese sviluppato, che riflette sulle conseguenze a lungo termine dell’inquinamento, e i Paesi in via di sviluppo, che non ci pensano davvero nel momento stesso in cui agiscono perché, al momento, sembra qualcosa di insignificante. Quando hanno aperto il Gruppo chimico, ad esempio, pensavano che buttare tutto in mare non avrebbe avuto conseguenze: è come gettare una goccia d’acqua nel mare, non si vede. Ma dopo anni e anni, non si sono mai proiettati nel futuro, non si sono mai detti che a un certo punto questo avrebbe inquinato, ucciso i pesci, avuto effetti negativi sulla salute umana. Ed è proprio questo il problema: poiché non ci si è pensato né allora né dieci anni dopo, oggi ci ritroviamo con effetti disastrosi sull’essere umano, sulla terra, sul mare, sulle nostre risorse — su tutto.

Fermare gli stabilimenti, ma con una strategia 

Per me la soluzione migliore è davvero fermare completamente questa attività: ormai non è più possibile — anche se si volesse pulire — eliminare del tutto gli effetti negativi; quindi bisogna interrompere questa attività e poi passare alla fase di decontaminazione. Ma “fermare” non significa decidere oggi di chiudere e domani smettere: serve anche in questo caso una strategia, un piano articolato in tappe, per sospendere progressivamente l’attività senza creare altri danni, altrimenti anche l’interruzione improvvisa può avere conseguenze ambientali negative. Una volta superata questa fase — cioè quando l’attività sarà realmente e definitivamente fermata — bisognerà iniziare a riflettere su come ricostruire il microclima di Gabes, che oggi è fortemente inquinato, e su come riqualificare l’intera area.

Per quanto riguarda un primo passo per arrestare la propagazione dell’inquinamento, bisogna innanzitutto creare una barriera, per esempio con l’argilla, che costituisce uno strato impermeabile: coprirli con un materiale di questo tipo permetterebbe di bloccare la diffusione e la dispersione dei residui in altre zone. Cercare di piantare e introdurre specie vegetali capaci di stabilizzare i metalli pesanti e gli altri elementi che possono inquinare la natura, in modo da bloccarli sul posto, impedendo che si propaghino altrove e contaminino altri terreni — soprattutto quelli agricoli. Questo è solo un esempio: ci sono biologi che hanno già lavorato su questo tema. Una mia amica, ad esempio, ha realizzato la sua tesi di dottorato all’Università di Tunisi su questo argomento. Ha testato diversi tipi di piante, proprio nell’ottica della riabilitazione dei siti minerari: una volta che si interrompe l’attività estrattiva e non si sfrutta più il sito, non lo si può semplicemente abbandonare così com’è. 

Una strategia tunisina per il futuro

L’idea, quindi, sarebbe riunire diversi ricercatori, raccogliere anche le ricerche già realizzate, e metterli intorno a un tavolo insieme a esperti di ogni specialità, affinché possano discutere e confrontarsi. Sono certa che i Tunisini  possano davvero elaborare una strategia realistica e sostenibile sul lungo periodo, da applicare passo dopo passo. E se, a un certo punto, lo Stato decidesse di prendere decisioni concrete, affiancato da un comitato scientifico che presenti una strategia ben studiata nel tempo, allora il terzo passo fondamentale sarebbe comunicare tutto questo chiaramente alle ONG e agli abitanti del posto. Così, anche loro capirebbero e sicuramente comprenderebbero che tutto ciò richiederà del tempo, ma almeno saprebbero che sono stati ascoltati e che si stanno intraprendendo davvero iniziative per cambiare la situazione.

Per approfondire: qui un articolo in cui spieghiamo cosa sta succedendo a Gabes

© Riproduzione riservata 


Sei un nostro lettore abituale? Sostieni il nostro lavoro, basta un click!

INSERT_STEADY_CHECKOUT_HERE

Casella dei commenti di Facebook
casi soffocamento Gabescosa sta succedendo a Gabesfosfato GabesGabesGCT GabesImen Arfaouiinquinamento Gabesproteste Gabesvivere a Gabes
Comments (0)
Add Comment