Sono passati quasi tre mesi dal 25 luglio e in Tunisia si stanno moltiplicando i segnali di allarme sulla libertà di espressione. “Vi è stata un’ondata di repressione: una campagna di arresti ha coinvolto, oltre ad avvocati e attivisti, politici e parlamentari, anche blogger e giornalisti.” Chi parla è Abdelfattah Taghouti, responsabile dell’Ufficio media e comunicazione di Ennahdha, alle spalle una carriera di quadro politico e dirigente amministrativo, attivo prima della Rivoluzione nel sindacato studentesco e nel Forum Al-Jahiz, successivamente impegnato nel settore giovanile di Ennahdha e oggi membro dell’Ufficio politico. Il 25 luglio lo trova presidente della provincia di Kairouan, carica da cui si dimette pochi giorni dopo “per protesta contro il golpe”. L’intervista si svolge in arabo e in italiano, con l’assistenza di un interprete.
“Non si può parlare dei media dopo la Rivoluzione senza ricordare almeno alcuni aspetti di come stavano le cose prima” esordisce Taghouti che sottolinea come sotto Ben Ali il settore dei media fosse pressoché esclusivamente pubblico. “Abbiamo dovuto aspettare il 2004 per vedere il primo canale Tv privato (Hannibal TV, ndr). Dopo la Rivoluzione c’è stata una brusca apertura della società, soprattutto nello spazio politico, ma anche in quello mediatico. Al contempo vi era un certo malcontento nei confronti dei grandi media mainstream che alcune forze politiche consideravano anti-rivoluzionari. Poi sono stati creati organi costituzionali di regolazione del settore. Vi sono state esperienze nuove, alcune di breve durata, ma in generale i media hanno conosciuto uno sviluppo positivo per quanto alcuni li percepiscono tuttora come anti-rivoluzionari”.
Insisto: chi erano gli scontenti e quali i media presi di mira? “Gli scontenti erano diversi, ma poi hanno trovato un compromesso con i principali canali affinché ad ognuno venisse assegnato il giusto spazio. All’inizio la polemica sui media era più accesa”. Esempi? “Alla fine del 2012, quando Ali Larayedh era ministro dell’Interno, nel corso di un dibattito in diretta su Attounissya TV a cui stava partecipando, è stato fatto intervenire a sorpresa un giovane salafista che si è presentato con un sudario in mano, chiamando al jihad e minacciando il governo. Si può immaginare l’impatto che ciò ha avuto. Il giovane apparteneva ad un’organizzazione che poi è stata riconosciuta come terrorista (si trattava di Ansar al Chariya, ndr), eppure lo hanno invitato. Ma in seguito noi di Ennahdha abbiamo trovato un compromesso con i grandi canali e abbiamo uno spazio su tutti”.
Forse uno spazio sproporzionato, stante ai dati della Haica. “C’è una gran differenza tra ‘presenza’ e ‘propaganda’ mediatica. Non c’è tavola rotonda nella quale non si parli di Ennahdha, con o senza la sua presenza, e spesso in modo negativo. Ennahdha non ha problema con la critica finché questa si basa su dati oggettivi. Spesso però le accuse sono false e le analisi unilaterali. La nostra presenza mediatica ci ha giovato talmente poco che ultimamente abbiamo cambiato le nostre politiche, decidendo di limitare molto gli interventi. Eppure continuano a chiamarci anche se noi rifiutiamo di partecipare. Sottolineo che ci sono state critiche giustificate e queste le accettiamo: Ennahdha ha fatto degli errori, soprattutto nel primo periodo di governo.”
Ma prima di questa recentissima svolta, Ennahdha ha elaborato una strategia di comunicazione? “Ennahdha ha la sua strategia comunicativa, come qualsiasi partito politico. Ma non c’è partito che sia stato oggetto di tante accuse quanto il nostro: terrorismo, espatrio di foreign fighters, finanziamenti esteri illeciti”. (Aggiungo mentalmente la più recente: furto dalle casse dello Stato). “Accuse pesanti, la cui falsità è stata provata. Nel Rapporto della Banca Centrale non è emerso nulla su finanziamenti sospetti”. (E nemmeno su appropriazioni indebite,ndr). “Ennahdha è stata il target numero uno di tutte le campagne mediatiche e inizialmente le nostre reazioni non erano abbastanza ponderate. Lotfi Zitoun ha riconosciuto che il sit-in davanti a El Watanya e i toni usati – si è gridato alla “vergogna” della tv di stato, ndr – non erano reazioni sagge. In seguito abbiamo cambiato strategia: riconosciamo tutte le linee editoriali, interagiamo con tutti e chiediamo semplicemente il diritto di replica.”
“E la proprietà?” insisto. Una lunghissima risposta, che l’interprete traduce con un lodevole sforzo di sintesi, evidenzia quanto il tema sia delicato. Taghouti si richiama alla legge sui media – e sul conflitto di interesse – che Ennahdha afferma aver sempre rispettato. “Gli vengono attribuiti media come Zituna perché il suo fondatore siede nella Shura” (il Consiglio Consultivo del partito, ndr). Ma Zituna trasmette dall’estero. Se continua a trasmettere dopo il sequestro delle sue attrezzature non è grazie ad Ennahdha. La verità è che chiunque non critichi Ennahdha, ma fornisce dati oggettivi, viene accusato di essere un suo sostenitore occulto. Come il famigerato presentatore televisivo di cui tutti parlano: si è limitato a rilevare che Ennahdha non è stata al governo per dieci anni ma di meno!” In effetti alcuni dati della Haica documentano come non sono le trasmissioni con quel presentatore quelle che danno più spazio a Ennahdha. “Purtroppo la Haica, come nel caso di Zituna Tv, ha spesso avuto un ruolo politico: anziché svolgere il suo mestiere di autorità amministrativa indipendente ha preso posizione nei conflitti politici schierandosi. Ma in una transizione democratica, in cui tutto è nuovo, questo è normale”.
I media hanno una qualche responsabilità? “Vi sono ancora delle lacune, ma rispetto a prima della Rivoluzione il progresso è stato enorme, con una grande apertura del dibattito e un importante ricambio generazionale. A ciò ha contribuito la digitalizzazione dei media insieme alla diffusione di facebook e twitter. Tutto ciò ha fatto emergere questioni sociali ed economiche prima ignorate. Penso al dibattito che in questi giorni si è aperto in seguito all’accoltellamento di un insegnante da parte di uno studente e che si è esteso all’intero sistema educativo. Lo stesso è avvenuto per diverse questioni economiche e sociali. In realtà l’unico campo in cui la comunicazione non ha funzionato bene è quello del rapporto tra media e governi. Questi ultimi non avevano una comunicazione ben strutturata, non riuscivano a discutere con la gente. Per il resto i media hanno avuto un ruolo importante.”
In parole povere: la comunicazione politica dei governi in questi dieci anni è stata disastrosa. Chissà se Kais Saied ne ha tratto le debite conseguenze: certo è che il problema del rapporto governo-media lo ha risolto eliminandolo completamente. Niente più conferenze stampa, niente più interviste né comunicati stampa: i giornalisti devono cercare le informazioni sulla pagina facebook della presidenza. Chiedo quindi: “E dopo il 25 luglio?” Secondo Taghouti c’è stato un arretramento evidente: “Basta vedere come sono stati trattati dalla polizia i giornalisti in occasione delle proteste popolari di Agareb per la faccenda dei rifiuti, una settimana fa. O durante la manifestazione contro il colpo di stato al Bardo, domenica scorsa.”
“La repressione ha però incontrato – al di là di alcuni media che sostengono il Presidente, ndr – una grande e compatta resistenza da parte dei giornalisti – prosegue Taghouti -. Lo Stato sta cercando di controllare lo scenario mediatico per portare avanti il suo progetto autoritario. Ma la gente è consapevole che i problemi non si risolvono con la dittatura, come dice la propaganda, ma solo con la democrazia. Noi Tunisini abbiamo gustato il sapore della libertà e non sarà possibile tornare indietro”, aggiunge esprimendo una convinzione tuttora assai diffusa: “Io sono molto ottimista”.
© Riproduzione riservata