In queste settimane, esperti e ricercatori continuano ad interrogarsi sulle sorti della Tunisia. Lo scorso 16 novembre, si è svolta una conferenza dal titolo “Tunisia at a crossroads”, “Tunisia al bivio”, organizzata dal Tahrir Institute for Middle East Policy (TIMEP), organizzazione che si occupa di sostenere i processi di transizione democratica, attraverso analisi, ricerche e azioni di advocacy. Tra i relatori presenti all’incontro, Chaima Bouhlel (ricercatrice del TIMEP, specializzata in processi di decentramento in Nord Africa), Khansa Ben Tarjem (dottoranda all’Università di Losanna, esperta di servizi di sicurezza in Tunisia) e Samah Krichah (responsabile programma per l’organizzazione Kvinna Till Kvinna Foundation in Tunisia). A moderare, la giornalista freelance, Elizia Volkmann.
Il punto di partenza per avviare il dibattito è stata una riflessione su due date che hanno segnato il Paese negli ultimi mesi: la prima è il 25 luglio, quando il presidente della Repubblica, Kais Saied, ha invocato l’articolo 80 della Costituzione, introdotto misure straordinarie, licenziato il Primo ministro, Hichem Mechichi, e congelato le attività del Parlamento; la seconda è il 22 settembre, giorno in cui Saied, con il Decreto presidenziale n.117, ha di fatto concentrato tutti i poteri nelle sue mani e sospeso alcune parti della Costituzione, per poi dare vita ad un Governo guidato da Nejla Bouden.
Aspetti costituzionali – Chaima Bouhlel ha descritto i fatti del 25 luglio come “un abuso nell’interpretazione della Costituzione, perché, sebbene il Presidente abbia il diritto di dichiarare uno stato d’eccezione in caso di minaccia imminente (in base all’articolo 80, ndr), non c’è nessuna Corte che possa definire il limite né la natura stessa di tale minaccia”. Mentre “il 22 settembre rappresenta una vera dichiarazione di uscita dal sistema politico – ha commentato – nonostante l’impegno del Presidente nel ribadire che siamo ancora nei parametri della Costituzione tunisina del 2014”. Bouhlel ha poi posto l’accento sul costo politico molto basso per Saied nel violare la Costituzione, dal momento che la classe politica non godeva più di alcuna credibilità presso l’opinione pubblica. Il gesto “è il risultato di una lunga serie di fallimenti da parte di due parlamenti consecutivi che non sono riusciti ad istituire una Corte Costituzionale, è il risultato del mancato rispetto delle regole”. Tanto che gli stessi parlamentari “non sono stati in grado di opporsi il 25 luglio, mancando il supporto popolare”. Tuttavia, il fatto che le istituzioni abbiano fallito in questi anni, anche nel rispondere ai bisogni della popolazione, “non significa che ciò che è accaduto sia giustificabile – ha aggiunto Chaima Bouhlel -. La legittimità legale rimane un aspetto importante”.
Nuove proteste, vecchi schemi – In una situazione così fragile, molte questioni restano irrisolte e a volte si intrecciano tra loro su più livelli. É il caso della questione ambientale legata alla riapertura della discarica di Al Agareb (nella regione di Sfax), decisione che ha scatenato le proteste degli abitanti, subito represse dalle forze dell’ordine. Per la ricercatrice Khansa Ben Tarjem, “la violenza della polizia non è una novità. Siamo un Paese in cui la dittatura usava la polizia per reprimere qualunque tipo di opposizione (…) Dopo la caduta di Ben Alì, abbiamo avuto l’opportunità di riformare il sistema, ma abbiamo mancato quest’opportunità. Anche con le elezioni e con un sistema democratico, la polizia non è stata riformata. Quello che vediamo applicato oggi è un vecchio schema, in cui si usano le forze di sicurezza per risolvere problemi economici e sociali”. Se l’intensità delle violenze è diminuita negli anni e non c’è più una sistematica repressione e tortura degli oppositori, la violenza della polizia ha continuato a colpire i movimenti sociali e i quartieri più poveri dal 2011, in un contesto favorevole di sostanziale impunità. Riguardo alle violenze di Al Agareb, secondo Khansa Ben Tarjem,“nel momento in cui Saied concentra tutto il potere nelle sue mani e sceglie di usare simbolicamente la polizia e i militari, deve assumersi la responsabilità per i loro abusi”.
I fatti di Al Agareb ci dicono qualcosa anche sulle reali intenzioni di Kais Saied e sul suo approccio rispetto alle questioni locali, che di fatto non vengono affrontate dal basso attraverso un dialogo con le parti sociali: “Saied ha riaperto la discarica anziché rispettare la decisione del Tribunale. Il suo approccio è stato centrale, in quello che sembra un rafforzamento del sistema ‘top-down’ e non ‘bottom-up’ – ha commentato Chaima Bouhlel – Per chiunque segua la Tunisia questo non significa riportare le istituzioni tunisine al normale funzionamento, perché normalmente le istituzioni dovrebbero aprire dei canali di dialogo con la popolazione, per trovare soluzioni locali”.
Questione economica – Anche Samah Krichah rimane molto critica nei confronti di Saied e ribadisce la necessità di azioni urgenti per scongiurare un nuovo ciclo di proteste e violenze: “Molte persone credono ancora che Saied sia un salvatore, ma non è chiaro in che misura questa figura potrà salvarli (…) Se il Presidente e il Governo intendono acquisire legittimità popolare – ha spiegato – devono essere trasparenti rispetto alle loro intenzioni, devono avere un chiaro programma e soprattutto devono consultare le persone (…) Abbiamo bisogno di garanzie riguardo al ritorno della democrazia”. Ritorno all’ordine democratico che, secondo Chaima Bouhlel, potrebbe avvenire anche attraverso elezioni locali, nel contesto delle riforme strutturali di decentramento avviate in Tunisia in questi anni.
Per capire quale direzione prenderà il Paese, bisognerà vedere come il Presidente affronterà la sfida economica, sul piano interno e nel contesto internazionale. In questo senso, è interessante riportare alcuni passaggi dell’intervento di Khansa Ben Tarjem che ha fatto riferimento ai rapporti tra Tunisia e Fondo Monetario Internazionale (FMI), riflettendo su come i finanziamenti ricevuti finora non siano serviti ad implementare progetti di sviluppo, né a rafforzare il sistema educativo, sanitario e dei trasporti: “Dal 2013, la Tunisia riceve dei prestiti per pagare i prestiti precedenti e non per attuare dei progetti. Questa situazione è drammatica. L’aspetto complicato è che il Paese non sta finanziando sé stesso ma i suoi creditori”. “Anche se arriveranno nuovi prestiti – ha precisato – non basteranno per ripagare il debito e assicurare sviluppo, siamo incastrati in questo ciclo”. Inoltre, “questi soldi arrivano sempre con un alto prezzo da pagare, in termini di sovranità nazionale e costo sociale. Credo che la Tunisia dovrebbe essere pronta ad ogni tipo di scenario”, ha concluso. La conferenza si è svolta proprio nei giorni in cui erano in corso discussioni tecniche tra il FMI e le autorità tunisine, per valutare l’avvio di un nuovo programma di finanziamento.
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