La rivoluzione tunisina è stata una serie di manifestazioni di strada che hanno avuto luogo in tutta la Tunisia dal dicembre 2010. Le dimostrazioni e i disordini sarebbero iniziati per la disoccupazione, l’inflazione alimentare, la corruzione, la libertà di parola e le cattive condizioni di vita. Le proteste hanno costituito la più drammatica ondata di disordini sociali e politici in Tunisia in tre decenni e hanno provocato decine di morti e feriti. Le proteste sono state innescate da un’ auto-immolazione di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre e hanno portato alla cacciata del presidente Zine El Abidine Ben Ali 28 giorni dopo, il 14 gennaio 2011, quando si è ufficialmente dimesso dopo essere fuggito in Arabia Saudita, terminando 23 anni al potere. Le proteste hanno ispirato azioni simili in tutto il mondo arabo, in particolare in Egitto, Yemen e Giordania. Le donne in Tunisia sono uniche nel mondo arabo a godere di una quasi uguaglianza con gli uomini. E sono ansiose di mantenere il loro status.
Il 14 gennaio, il giorno in cui l’ex Presidente ha lasciato il paese, migliaia di donne sono scese in strada, in particolare nel centro di Tunisi, l’Avenue Bourguiba. Sono state frequenti le scene di donne che tenevano uno striscione con la scritta “dégage” (“vattene”) e le voci femminili sono risuonate forti e chiare durante le proteste di massa. Durante i giorni delle proteste, donne di ogni partito politico e status sociale sono scese in piazza: signore anziane, giovani ragazze, avvocati e giudici, donne con velo e senza velo hanno marciato per le strade chiedendo la cacciata del Rais.
L’uguaglianza tra uomo e donna, in quelle settimane è stato lampante: uomini e donne sono scesi fianco a fianco in strada. Donne col velo e in minigonna, affianco a uomini di ogni età e partito politico. Non importava, erano in mezzo alla strada tutti insieme.
Durante la rivoluzione, le casalinghe hanno avuto un ruolo importante e sottovalutato. Con la carenza di cibo che alcuni quartieri poveri hanno sofferto durante le proteste, le famiglie hanno iniziato a collaborare, cucinando l’una per l’altra, condividendo il cibo, e così via. Quando gli atti di violenza della polizia segreta hanno cominciato a verificarsi dopo il 14 gennaio, le donne hanno persino trasgredito i loro tradizionali ruoli di genere contribuendo a salvare i quartieri di notte insieme agli uomini. Addirittura, in alcuni quartieri, le barricate erano completamente gestite da donne.
Ricordiamo l’importanza avuta dai nuovi media nella rivoluzione tunisina. È evidente come i social abbiano giocato un ruolo chiave questa volta nel mantenere lo slancio, e nel portare le voci dei giovani tunisini disimpegnati all’attenzione della stampa straniera, e quindi dell’opinione pubblica internazionale. I telefoni cellulari, i blog, YouTube, le pagine di Facebook e i feed di Twitter sono stati strumenti fondamentali nel mediare la copertura in diretta delle proteste e dei discorsi, così come la brutalità della polizia nel disperdere le manifestazioni. Il ruolo delle donne in questo attivismo dei social media è stato ancora una volta inevitabile. Lina Ben Mhenni, creatrice del blog “Tunisian Girl“, è diventata un simbolo per il ruolo che il suo sito internet ha avuto nel diffondere le immagini delle manifestazioni scoppiate in tutto il Paese. Oltre a Lina, ci sono state tantissime donne che hanno avuto un ruolo fondamentale nella diffusione delle notizie, come la giornalista Amel Smaoui che, nonostante la censura, fu tra le prime a diffondere le notizie degli spari sulla folla, o Amira Yahyaoui, fondatrice della ONG Al Bawasala, che continua a monitorare lo stato democratico del Paese.
La donna tunisina nella storia
I primi gruppi femministi nascono in Tunisia all’inizio del ‘900, durante il dominio coloniale francese. Le donne tunisine sono state parte integrante della resistenza nazionale, con i primi sindacati femministi – la Muslim Union of Tunisia’s Women (1936) e la comunista Union of Tunisia’s Women (1944) – in prima linea nella lotta per l’indipendenza. Da qui capiamo come sia storico il ruolo delle donne nei momenti più importanti per il Paese.
Nel 1956, con l’indipendenza del Paese e la proclamazione della Repubblica guidata da Habib Bourguiba, si instaurò un sistema a stampo socialista basato su riforme per perseguire uno Stato moderno e semisecolare. Tra le prime leggi promulgate vi è il Codice di Statuto Personale del 1956, uno dei documenti più liberali della regione in fatto di uguaglianza di genere. I diritti introdotti nel Codice trovano eco anche in una serie di decreti e leggi successive, e nell’articolo 6 della Costituzione del ’57, secondo cui: “Tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e doveri. Tutti sono uguali davanti alla legge”.
Le misure più importanti introdotte in questo periodo sono l’abolizione della poligamia, la legalizzazione dell’aborto entro le prime tre settimane di gravidanza – modificato poi nel 1964 con la legge definitiva che permette l’interruzione di gravidanza fino al terzo mese di gestazione – l’innalzamento dell’età minima per il matrimonio a diciassette anni, l’abolizione del ripudio verbale della donna da parte dell’uomo, la legalizzazione del divorzio a cui ambo i sessi possono ricorrere, il divieto del velo nelle scuole, negli uffici e negli stabilimenti pubblici. Importante ricordare l’accesso gratuito all’istruzione per entrambi i sessi.
Tuttavia, la questione femminile è in questi anni fortemente condizionata dallo Stato, circoscritta e strumentalizzata per servire le esigenze del regime. Le attività dei sindacati nati prima dell’indipendenza sono messe al bando, e i gruppi femminili sono cooptati nel 1958 nella National Union of Tunisian Women (UNFT), vicina al partito del Neo-Dustur.
Questo stato di torpore del movimento femminista tunisino si interrompe tra anni ’70 e ’90. Da un lato, la trasformazione in direzione neoliberista conduce all’acuirsi delle disuguaglianze economiche, e a una serie di proteste popolari guidate dalla sinistra, di cui le donne sono parte attiva. Nasce nel 1978 il Tahar al Haddad Club, per incoraggiare la partecipazione delle donne alla vita economica e culturale del Paese.
Dopo il colpo di Stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali assume la presidenza e abbraccia un femminismo di Stato simile a quello del suo predecessore. Negli anni ’90 vengono allargati i diritti civili alle donne e iniziano ad essere legalizzate associazioni femministe.
Il rinnovato supporto alla causa di genere non viene utilizzato solo come propaganda per i Paesi occidentali, ma garantisce al regime anche la cooperazione dei gruppi femministi in chiave antislamista. Infatti, quando il risultato delle elezioni del 1989 mostra il potenziale di Ennahda, anche gruppi che si professano indipendenti e neutrali (come l’ATFD e l’AFTURD) assumono una linea vicina a quella del regime, sottolineando la propria identità laica.
Esattamente come in quasi tutti i settori della società, anche la causa femminista ha causato una spaccatura evidente nel Paese. Infatti, promuovendo solo determinate voci all’interno del panorama femminista e reprimendo qualunque alternativa e dissenso, Ben Ali ha confinato la causa femminista all’interno di un gruppo ristretto di donne borghesi, intellettuali, laiche e perlopiù concentrate nella capitale, in contrapposizione con la realtà rurale e operaia, più vicine ai valori islamici – confermato poi con i risultati delle elezioni del 2011 e 2014.
Dalla Rivoluzione ai giorni nostri
La caduta del regime nel 2011 ha avviato la Tunisia verso un percorso di transizione democratica che ha portato finora a progressi concreti nell’ambito della parità di genere. Sono state introdotte le quote rosa e una storica legge che, nel 2017, ha affrontato il tema della violenza di genere. Importante è stata anche l’approvazione della proposta di legge dell’ex Presidente Beji Caid Essebsi del novembre 2018, in merito alla ripartizione equa dell’eredità tra uomo e donna.
Tale proposta è in aperta opposizione alla Shari’a – secondo la quale alle donne spetterebbe la metà dell’eredità destinata agli uomini – ed ha scatenato l’opposizione di Ennahda, che è riuscita ad affossare l’approvazione della legge, che resterà nel dimenticatoio, anche per le posizioni conservatrici dell’attuale Presidente Kais Saied.
Un’altra importante conseguenza della rivoluzione della dignità è stata l’affermazione di identità diverse all’interno della cornice femminista tunisina, con la nascita di un attivismo islamico organizzato sul versante dei diritti delle donne. Il tentativo di rivedere la lotta femminista in ottica religiosa non è un fenomeno nuovo nella regione, soprattutto in Egitto, ma in Tunisia ciò era stato a lungo impedito dalla ciclica repressione dell’Islam politico. Il femminismo islamico si basa sul tentativo di coniugare religiosità e diritti, tenendo in considerazione che l’attuale applicazione della Shari’a è la rappresentazione dell’interpretazione patriarcale delle fonti coraniche. Nell’ottica del femminismo islamico, quindi, non è vero che l’Islam non è compatibile con i diritti delle donne, semplicemente la visione maggioritaria è quella patriarcale. Va comunque sottolineato che per le femministe legate a Ennahda, uomini e donne non sono uguali, ma complementari.
La linea del partito, dettata da Rached Ghannouci nell’estate del 2012, era contro la parità di genere e, il 13 agosto dello stesso anno, il giorno della festa nazionale delle donne, migliaia di tunisine sono scese in piazza per i loro diritti, sottolineando come nessuna fosse disposta a perdere i diritti acquisiti e urlando “siamo uguali, non complementari”. Anche grazie al sostegno della stragrande maggioranza della Costituzione, le donne tunisine furono ascoltate, e alla donna è stato dedicato un intero articolo della Costituzione, l’articolo 46: lo Stato si impegna a garantire l’uguaglianza tra uomini e donne in ogni settore della società.
Il percorso per l’uguaglianza sostanziale, soprattutto nel cambio di mentalità nella società, è ancora lungo, ma le nostre donne hanno dimostrato di non voler abbassare la guardia. In particolare, l’Associazione per le Donne Democratiche (ATFD), continua ad essere in prima linea in tutte le manifestazioni del Paese, chiedendo parità di diritti non solo per le donne, ma anche diritti sociali per le persone più in difficoltà e tutela per la comunità LGBT+, come avvenuto il 14 gennaio 2021. La strada è in salita, ma noi non ci fermiamo.
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