“A volte penso che non riuscirò mai a capirti al cento per cento e questa cosa mi spaventa. Nonostante gli sforzi, non potrò mai capire fino in fondo la tua condizione di straniero, come ti senti qui, la nostalgia che puoi avere per la tua vera casa e per la tua famiglia e tutti gli affetti che hai dovuto lasciare là, perché non ci sono passata“. Queste parole le ho scritte anni fa al mio ragazzo di origine tunisina, che poi è diventato mio marito. Non avevo certo immaginato che anni dopo mi sarei ritrovata nella sua stessa situazione, a dover ricominciare da capo in un Paese sconosciuto, senza sapere la lingua e non avendo nessun altro al di fuori di lui come punto di riferimento.
Da ormai nove mesi ci siamo infatti trasferiti a Tunisi e il vivere nel suo Paese mi ha davvero aiutata a capire meglio certe sue emozioni e certi suoi comportamenti che prima non riuscivo appieno a comprendere e che in fondo riguardano ogni migrante. Ad esempio la necessità di parlare la propria lingua: quando i suoi amici venivano a trovarci, parlavano in tunisino, e io, non avendo nemmeno le basi minime dell’arabo, ovviamente non capivo nulla. “Scusa se parliamo in tunisino – mi dicevano –, ma ci viene spontaneo quando ci vediamo” e poi traducevano quello che si erano detti. Lo ammetto, in quei momenti mi sentivo esclusa e mi sembrava di perdermi qualcosa: una traduzione non sarà mai uguale al comprendere appieno le sfumature di una lingua e certi vocaboli sono difficili da tradurre. Oppure il cercare, nelle macellerie islamiche, prodotti alimentari provenienti dalla Tunisia: la Boga (una bevanda frizzante che ricorda il chinotto, ma molto più dolce e con gusti diversi), l’harissa (la salsa piccante, onnipresente nei piatti tunisini, soprattutto al Sud) e farne scorta in valigia appena ritornava a trovare i genitori: mlewi (un tipo di pane piatto), harissa fatta in casa, carne di agnello e dolcetti vari.
L’amore – odio per il “Paese d’accoglienza”; senza contare il vedersi spesso la strada sbarrata solo perché straniero, senza neanche avere una possibilità. A dire il vero quest’ultima cosa non mi ha riguardata: la mia italianità mi ha aperto più porte, in quanto l’Italia è vista come un Paese più avanzato della Tunisia e di conseguenza gli italiani sono nella maggior parte dei casi trattati con i guanti. Ma mi sono ritrovata nel resto del suo vissuto. I primi giorni mi sentivo disorientata, anche se per strada, nonostante la mancanza della lingua, me la potevo cavare con il francese. Tornando a casa cercavo di sintonizzarmi sui canali italiani e quando quest’estate siamo andati per qualche giorno in Sicilia, mi ha fatto uno strano effetto sentire la gente parlare in italiano. Per non parlare poi del cibo: se prima non vedevo l’ora di mangiare cous cous o altri piatti tunisini, dopo qualche tempo sono stata presa dalla nostalgia culinaria e nei supermercati vagavo alla ricerca di qualche prodotto italiano: soprattutto pasta, mozzarella, caffè. E alla prima occasione che mamma e nonna sono venute a trovarmi, la loro valigia era colma di cibarie: mozzarella, formagella, parmigiano, caffè e cioccolato a non finire.
La nostalgia culinaria è stata accompagnata da quella affettiva: mi manca la mia famiglia e le amiche vere, quelle che conosco da una vita e che sanno capirmi subito. Per fortuna ormai con la tecnologia le distanze si accorciano e ci si riesce a sentire tutti i giorni. E l’amore – odio per la Tunisia l’ho provato spesso: amore per certi luoghi magici, per la lingua che sto imparando pian piano, per la semplicità nel vivere, per il ricordarsi di Dio in ogni istante; odio per la disorganizzazione, per certe ipocrisie e modi di pensare. Non so per quanto ancora mi fermerò qui, ma so che nonostante tutto questa esperienza è un tassello importante nella nostra storia di “coppia mista”.
“Questa è l’emigrazione, questo è vivere da stranieri in un altro paese […] Il nostro elghorba [l’esilio] è come qualcuno che arriva sempre in ritardo: arriviamo qui, non sappiamo nulla, dobbiamo scoprire tutto, imparare tutto – per coloro che non vogliono restare così come sono arrivati – siamo in ritardo sugli altri, sui francesi, restiamo sempre indietro. Più avanti, quando [l’emigrato] ritorna al suo villaggio, si rende conto che non ha nulla, che ha perduto il suo tempo.[…] Tutta l’emigrazione, tutti gli emigrati, tutti quanti sono, sono così: […] l’emigrato è l’uomo con due luoghi, con due paesi. Deve metterci un tanto qui e un tanto là. Se non fa così è come se non avesse fatto nulla, non è nulla […]”
Testimonianza di un algerino immigrato in Francia in A. Sayad, La doppia assenza.
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