«Quando i nostri figli sono nati, ero sicura di due cose: avrebbero imparato la mia lingua e sarebbero stati musulmani». Aida Nabarrete, di Mérida (Messico), cristiana, vive in Tunisia da 34 anni, da quando ha conosciuto suo marito durante una gita in Europa. Per sposarsi in moschea ha dovuto fare la shahada (la dichiarazione di fede musulmana, ndr. In realtà un musulmano può sposare una donna di un altro credo senza conversione; la conversione viene richiesta quando è la donna musulmana a sposare un non musulmano. A volte capita che gli imam chiedano comunque la shahada, come è successo con Aida), ma è stata solo una conversione di facciata. Aida ha mantenuto la sua religione e continua a praticarla tranquillamente. In Tunisia dal 1964 è attivo infatti il «Modus vivendi»: un accordo tra il Vaticano e lo Stato tunisino che «assicura le condizioni indispensabili alla vita della Chiesa ed ai suoi rapporti con il potere e l’organizzazione dello Stato».
L’incontro con il marito in Europa
Ma partiamo dall’inizio: «Avevo 23 anni e studiavo psicologia – racconta Aida -: stavo facendo una gita in Europa, organizzata da un’agenzia di viaggi per raccogliere fondi per opere di bene. Mio marito Mohamed studiava all’accademia aeronautica di Pozzuoli ed era anche lui in gita: è stato il destino che ci ha fatto incrociare in un hotel a Madrid e poi lui è venuto a trovarmi a Venezia, dove si trovava il mio gruppo». Finita la gita, Aida deve tornare in Messico e Mohamed in Tunisia: era il 1978 e senza internet e la posta elettronica, l’unico modo per comunicare era scriversi lunghe lettere. E così comincia la corrispondenza d’amore tra Aida e Mohamed, che va avanti per un anno, finché Aida non decide di andare a Tunisia per conoscere il Paese e la famiglia di lui.
Un militare tunisino non può sposare una straniera
«Mia madre mi accompagnò – prosegue Aida – e qui decidemmo di sposarci. Mia madre però disse che lui avrebbe dovuto prima chiedere il permesso a mio padre e così fece». C’è però un ostacolo al matrimonio: lui è un militare e per legge non può sposare una donna straniera. Così si rivolgono alla moschea di Parigi e decidono di sposarsi lì con rito religioso, non valido dal punto di vista legale: «L’imam ha letto alcuni passaggi del Corano e ho dovuto fare la shahada: quando si è innamorati si fa di tutto. A festeggiare con noi c’erano i miei parenti; mancava la famiglia di lui perché non c’erano le condizioni per farli venire qui e poi dovevamo comunque fare il matrimonio in Tunisia». Matrimonio che viene celebrato nell’84 con un escamotage, facendo finta di aver perso i documenti ed eludendo così i controlli militari, seguito da una festa familiare.
L’educazione dei figli
«Lui era stato promesso in sposa alla cugina – racconta Aida -, come da consuetudine, ma io non lo sapevo. Mia suocera si immaginava la straniera alta e bionda: quando mi ha visto, ha esclamato: “Ma questa è tunisina!”. All’inizio alcuni suoi familiari erano diffidenti. Per quanto riguarda la mia famiglia, io ero la più piccola, la “cocca” di mio padre, quindi per lui è stato difficile sapermi lontana, mentre mia madre diceva “meglio lontana ma felice, che vicina ma disgraziata”». Nel 1992 la famiglia trascorre un anno in Francia e al ritorno Aida riesce a convincere il marito ad iscrivere i figli alla scuola gestita dalle suore: «La scuola pubblica era carente sotto diversi aspetti, mentre lì avrebbero ricevuto un’ottima educazione e un aiuto per svolgere i compiti. Non a caso anche diverse famiglie tunisine iscrivevano lì i propri figli, perché la preparazione era migliore».
Il marito di Aida era credente, ma non si sentiva a suo agio nel praticare: erano gli anni della dittatura ed era difficile poter esternare le pratiche religiose. Finché nel 2011 vanno in Turchia e da lì alla Mecca per il pellegrinaggio e da quel momento Mohamed comincia a pregare tutti i giorni, come richiesto dai cinque pilastri dell’Islam. «Per me è sempre stato un buon musulmano – prosegue Aida -: non critica nessuno ed è generoso ed altruista. Io invece, anche se avevo fatto la professione di fede in moschea, non volevo ripetere le preghiere: mi sembrava di essere un pappagallo, non le sentivo mie. Per sette anni non ho pregato, né con rito musulmano né con rito cristiano, ma mi mancava qualcosa. A scuola c’era una suora che, quando andavo a pagare la retta, mi apriva la cappella per poter pregare: sapeva che mio marito non avrebbe voluto che andassi a Messa la domenica. Finché una volta, a Natale, ho portato dalle suore la tradizionale pignatta messicana e anche lui ha partecipato a questo momento di festa.
Il rispetto delle tradizioni reciproche
Da lì ha cominciato a capire che quella e l’albero di Natale sono più tradizioni che questioni religiose. All’inizio non ha mai voluto questi simboli in casa ed io non ho mai fatto litigi apertamente per queste cose: sono la goccia che cade e piano piano lascia il segno. Ora facciamo l’albero di Natale e un piccolo presepe. Penso che ci fosse una difficoltà da parte sua nel capire l’importanza che avevano per me. Inoltre qui si dà molto peso alla reputazione, a quello che potrebbero pensare le persone. Prima vivevamo a Bizerte: lì il paese è piccolo e le persone ficcavano il naso. Dal 1999, da quando ci siamo trasferiti a Tunisi, invece sono più libera e ho ricominciato ad andare a Messa». Aida ha deciso che i figli, Imed ed Anouar, seguissero la religione del padre: «Non è stata una scelta difficile: non volevo creare conflitti nella loro educazione, per cui ho fatto così, per non farli sentire diversi e “sulla via sbagliata” rispetto alla maggioranza in cui vivevano e per rendere loro la vita più facile. Insegnando loro anche la mia religione e facendo vedere le similitudini tra i due credi, che sono molte, al di là di quello che si dice».
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Bellissima testimonianza!
Sono stato felice di aver prenderne conoscenza e altrettanto felice di sapere che è andata tutto sommato bene per questa coppia mista.
Grazie a Giada e grazie alla signora di cui non conosco l’identità per questa preziosa condivisione.