E’ una storia vera – ma non autobiografica come nei due precedenti romanzi “La riva lontana” e “La traversata del deserto” -, quella che la scrittrice Marinette Pendola, “italiana di Tunisia”, racconta nel suo ultimo romanzo “Lunga è la notte” (Arkadia editore, 2020). Si tratta di un femminicidio che, nel giugno del 1936, turbò gli animi della piccola comunità di Bir Halima, un paesino a sessanta km a sud di Tunisi: di notte, all’improvviso, mentre gli uomini sono ancora nei campi, si ode uno sparo: hanno ucciso Santina, davanti agli occhi dei due figli, Carmelina, che la vittima teneva in braccio, e Mimmo. Mentre Carmelina è troppo piccola per ricordare questo tragico episodio, Mimmo subisce il trauma di questa perdita. Ed è proprio lui la voce che apre il romanzo.
“La pastina. La pastina sparpagliata sul pavimento. Per qualche tempo ci fu solo quello. Poi, come uno spesso strato di cenere, un grigiore uniforme coprì ogni cosa. Per anni, per una vita intera. Fino ad oggi. E ora, mentre infilo la chiave nella toppa e sto per aprire la porta di casa, appare un’immagine all’improvviso. Mi abbaglia quasi. Mi fa tentennare mentre varco la soglia e mi avvio verso la camera. Ora ricordo. Ricordo perfettamente quello che avvenne quella sera. Attimo dopo attimo”.
Il titolo del romanzo, la lunga notte, non è solo quella in cui la madre del protagonista viene uccisa, ma è anche la notte in cui Mimmo, a 78 anni, ripensa a lei cercando di ricordare cosa sia successo, nonché metafora della sua vita, che è stata come una lunga notte dalla morte della madre in poi, un sopravvivere più che un vivere, attorniato dal buio. Dalla Tunisia la famiglia si trasferisce in Italia, a Bologna. Della madre Mimmo non ricorda nulla: nessuno, nel corso degli anni, gli ha parlato di lei, ma neppure lui ha mai fatto domande: voleva solo andare avanti e lasciarsi tutto alle spalle. Sarà un incontro inaspettato in ospedale, in visita all’amico Callisto, a far scattare in lui il desiderio di ripercorrere tutta la vicenda che portò alla sua scomparsa.
Il libro non è un giallo, ma il percorso di un uomo dentro di sé, un raccogliere i fili della matassa della sua memoria, ripercorrendo la sua infanzia ormai dimenticata, oltre a un racconto della comunità siciliana in Tunisia, che emerge attraverso i dettagli della vita quotidiana. Non erano né colonizzati, né colonizzatori, bensì migranti economici, che subivano i pregiudizi da parte dei colonizzatori, qui espressi dal brigadiere – che rappresenta l’autorità – e dal prete. Vediamo i siciliani apparire primitivi e rozzi:
“Sapeva che non avrebbe trascurato nulla, che avrebbe scavato nei meandri più intimi di quella famiglia. Si sa, i siciliani hanno costumi primitivi. Risolvono i loro problemi con una coltellata o una fucilata. E all’interno delle famiglie, dicono, le regole sono rigide. Basta poco, uno sguardo, un gesto, per scatenare l’inferno”
pensa il brigadiere Latrousse mentre i familiari di Santina sporgono denuncia.
“Quelle povere anime non capivano né il francese, né tantomeno il latino. Qualche sforzo doveva pur esser fatto per perforare la scorza dura del loro spirito. (….) Forse era ingiusto e ingeneroso questo suo giudizio, finì col dirsi mentre saliva il primo gradino della chiesa. Era ingiusto, perché aveva attorno a sé anime devote, sebbene un po’ selvagge e di difficile accesso”
riflette tra sé il prete prima di officiare il funerale di Santina.
I personaggi sono frutto della fantasia dell’autrice, a parte il prete, realmente esistito, padre Van den Haak, detto Turidduzzu. Vi si trova anche un legame con il penultimo libro: la moglie del guaritore da cui Mimmo, in Tunisia, viene portato per curare l’eczema, è la protagonista di “L’erba del vento”. La memoria è un tema molto caro all’autrice, che nei suoi romanzi cerca proprio di tenere viva la memoria storica che collega Italia e Tunisia, raccontare la Storia attraverso le storie di persone comuni. Una Storia che spesso accomuna le due sponde del Mediterraneo molto più di quanto si immagini.
© Riproduzione riservata