Qui vi avevamo raccontato la presentazione del fidanzato tunisino alla famiglia italiana.
Scampati quasi miracolosamente alla presentazione alla famiglia italiana, rimane l’altro problema: presentarsi alla famiglia situata sull’altra sponda del Mediterraneo. Noi donne su questo punto non ammettiamo repliche: se non ci presenta ufficialmente ai genitori, o perlomeno non accenna della nostra esistenza, vuol dire che la nostra non è una relazione seria (e l’idea che dall’altra parte ci sia una cugina che aspetta speranzosa il suo ritorno fa capolino nella nostra mente). “Amore, ma lo sanno i tuoi genitori che stiamo insieme? Ma tua mamma non dice nulla sul fatto che io non sia musulmana?” e via dicendo. Detto, fatto: e in questi tempi, che c’è di meglio di una presentazione “hi-tech”? E così, via con skype e le videochiamate: il viso della suocera sbuca sullo schermo del computer.
Peccato che io sappia spiaccicare solo pochissime parole d’arabo, tra l’altro mischiando tunisino e marocchino (tralasciando la mia capacità di captare, in una conversazione, quasi unicamente le parolacce: si vede che al mio orecchio suonano incredibilmente affascinanti). Così, dopo un “Salam aleykum” (buongiorno), c’è bisogno di lui che faccia da interprete, traducendomi gli inviti di lei ad andare a trovarli il più presto possibile e il padre che mi assicura che sarà un’ottima guida per la loro città. Il fratello intanto passa dietro e dice “ciao stupida” (come me, è molto bravo a captare le parolacce….): io rido, con lui si scherza su facebook e si parla in francese, e replico con il corrispettivo tunisino…
Le presentazioni virtuali sono andate: per le presentazioni al Paese di lui ci penseremo poi. Ora non resta che passare a quelle reali, qui in Italia: presentarsi allo zio di lui, con moglie e pargoli, l’unica parte della famiglia emigrata nel Belpaese, che da tempo ci invitano per un pranzo. Questa volta la paranoica sono io: “Questo vestito sarà troppo scollato? E se mettessi jeans e camicia? Ma io sono timida, vero che ci stiamo poco tempo?”. Si sale in macchina e via. Arrivati a destinazione, ad aprire la porta sono le due cuginette. La più piccola, che lo adora, lo apostrofa, in arabo, con “E lei che ci fa qui?”. Ma la diffidenza verso quest’estranea che le ha “portato via” il suo compagno di giochi, piano piano lascia lo spazio alla curiosità. Mentre la mamma continua a servire cous cous, intercalando “Kull!”, “Mangia” alle porzioni che riversa sul mio piatto, la piccola mi osserva seduta sul divano.
Io, per farla ridere un po’, comincio ad elencare le poche parole di arabo che conosco (imparato tramite Aladino, un gioco al pc per bambini delle elementari): “samaka”, “pesce”, “kelb”, “cane”, “bakara”, “mucca”… la piccola all’improvviso corre in camera e ritorna con una mucca di plastica, dandomela sorridendo: “bakara”. Il ghiaccio è rotto: da quel momento comincia a parlarmi in arabo, ripetendomi due o tre volte la stessa cosa, visto che non capisco, e gettando occhiate perplesse al papà… Ma non tutto il male viene per nuocere: incominciamo a giocare al “gioco del silenzio”, con la mucca nascosta dietro la schiena e il papà che in arabo le suggerisce in che mano la nascondo e il divertimento è assicurato. Anche questa è andata !
L’articolo originale è stato pubblicato nel blog « Amore senza confini » de Linkiesta
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