A dieci anni dalla cosiddetta rivoluzione della dignità, quale futuro per la gioventù tunisina? La ong International Alert Tunisia ne ha fatto un documentario, “La vita della gioventù tunisina a dieci anni dalla rivoluzione” di Olfa Lamloum e Michel Tabet, un lavoro tra i due più grandi quartieri popolari della Grand Tunis, Douar Hicher e Ettadhamen. Un lavoro che mostra l’esperienza di questi giovani nel quartiere e l’impatto della polizia nelle loro vite. Storie di giovani imprigionati in un sistema in cui i servizi sociali sono privi di risorse e il discorso delle autorità locali sposa il mantra dell’iniziativa imprenditoriale. Anche se negli ultimi tempi, maggiori sforzi dall’amministrazione sono stati fatti. Un lavoro che mostra una gioventù marginalizzata ma che nonostante tutto cerca la sua strada per una vita dignitosa.
Qui di seguito abbiamo selezionato qualche testimonianza.
Akrout, 29 anni, di Douar Hicher, arrestato per possesso di zatla (cannabis) mentre studiava all’università, dopo dieci mesi di prigione non ha più voluto proseguire gli studi e ha tentato più volta la harqa, la migrazione irregolare, pagando 2 mila dinari (circa euro, un prezzo diventato dieci volte tanto rispetto al 2011). Gli arresti, per migrazione irregolare, per disordini allo stadio, per zatla, non li conta più, ma nella sua memoria è ben impresso il primo arresto, nel 2008, durante le manifestazioni pro Palestina. “Chiamavamo il nostro quartiere lerya: è un’area della prigione in cui puoi camminare, come se fossi libero, ma sei ancora in carcere. Ecco, noi viviamo in una grande lerya”. Dove la droga, acquistabile prima solo dai ricchi, è diventata alla portata di tutti: “Negli ultimi due anni la cocaina era la più venduta. Le persone dopo la rivoluzione pensavano che non sarebbero più state oppresse, ma è cambiato solo il metodo: Ben Ali usava il martello per reprimerci, loro usano la droga”. E per il futuro aggiunge: “Vorrei andare all’estero, per poi tornare e investire piano piano in piccoli progetti, che creino lavoro per il quartiere. Non voglio passare la mia vita in Italia. Dio mi aiuti ad attraversare il mare”.
A Ettadhamen vive Ghofrane Belkhir, 18 anni, campionessa di sollevamento pesi. Prima del suo successo, nelle competizioni del 2018, Ettadhamen era considerato un covo di criminali e ladri: “In seguito cominciarono a dire che anche Ettadhamen poteva produrre dei campioni: la mentalità è cambiata. La mia carriera sportiva è cominciata nel 2011 nell’associazione sportiva di Ettadhamen, nel 2014 ho raggiunto la squadra nazionale. Quando compirò 22 anni voglio diventare un’allenatrice di sollevamento pesi: voglio rimanere in questo campo, è la mia passione sin da quando ero bambina”.
Yassine, 20 anni, di Ettadhamen, il volto nascosto alla telecamera, racconta invece del suo percorso di avvicinamento ai salafiti: “Avevo 14 anni, andavo spesso in moschea con mio padre, volevo migliorare la conoscenza della mia religione. Queste persone mi spiegano concetti che non sapevo, inoltre aiutavano sempre le persone. È questo che mi ha condotto a loro, vedevo qualcosa di positivo per il quartiere. Ero diventato davvero un’altra persona. Ma poi mi sono allontanato per diversi motivi. Un mio amico di 23 anni è andato in Siria nel 2016, nel 2017 ho saputo che era morto. Il secondo aveva 18 anni, partito anche lui nel 2016, è ancora vivo. Il terzo morì nel 2017 in Libia. Erano amici intimi, ho pianto per la loro morte. Pensavano di morire come martiri, ma solo Dio lo sa. Molti giovani non vanno più in moschea, hanno paura di essere arrestati. Alcuni sono ritornati ad essere alcolisti e ladri. Cercando di allontanarli dalla religione li hanno spinti verso qualcosa di veramente brutto”.
“La cosa più importante per i giovani di Douar Hicher è il lavoro: non ci sono molte opportunità qui. Inoltre ti senti sempre come se fossi accusato di un crimine. Nelle stazioni di polizia i nostri diritti sono appesi a un muro, ma possiamo solo leggerli, non vengono applicati. La situazione non è cambiata rispetto a prima” afferma Seifeddine Boubakri, attivista locale. Aggiunge Ikram Melki, studentessa: “Il problema principale è la stigmatizzazione dei giovani di Ettadhamen, per questo sono marginalizzati. Quando cercano un lavoro, vengono esclusi, finiscono in fondo alla lista. C’è stato un periodo, subito dopo la rivoluzione, in cui molte persone che conoscevamo sono partite per combattere. Questo non accade più, ma stiamo ancora pagando per gli anni in cui accadeva. La lotta contro il terrorismo è il pretesto per ogni cosa: maltrattare le persone, bloccare le loro iniziative”.
Si ritrova il leitmotiv della disoccupazione dovuta al fatto che i giovani cercano il lavoro fisso, come si evince dalle parole di Kalthoum Safta, direttrice dell’ufficio indipendente per il lavoro: “Perché c’è disoccupazione? A volte i giovani hanno paura di iniziare i loro progetti, tutti vogliono un lavoro sicuro per tutta la vita. Noi spieghiamo che questo tipo di impiego non esiste più: ci deve essere un cambio di mentalità, le persone devono andare verso lavori imprenditoriali”.
Per Mohamed Jendoubi, presidente della Commissione per la democrazia partecipativa, open governance e uguaglianza al comune di Douar Hicher: “I giovani devono avere fiducia nelle loro capacità, non devono essere lasciati in un vuoto: è quest’ultimo che spinge i giovani verso i gruppi salafiti o la droga. È importante combattere l’inattività presso i giovani: bisogna contattarli, parlarci, coinvolgerli, renderli protagonisti. La sfida per noi è di costituire un governo stabile localmente attraverso accordi già esistenti e al di là delle differenze. Poi si potrà parlare di riforme: queste necessitano di una base solida e stabile”
« Ettadhamen per me è un microcosmo della Tunisia – afferma Khemaies Younes, rappresentante del governo a Ettadhamen -: per questo seguire la situazione securitaria è difficile . La delinquenza è sempre esistita, ma c’era un blackout: ora i media ne parlano e anche sui social media si condivide di tutto. Non significa che non ci fosse delinquenza prima, anche se non vedo tutto questo allarmismo che spesso si fa”.
Dalle parole di Daysem Balkhiria, direttrice della casa del giovane di Douar Hicher, si evince come gli abusi di polizia siano una realtà ancora esistente e frequente: “I giovani riportano sempre gli abusi della polizia, l’essere picchiati quando vengono arrestati. Ma dicono anche che i poliziotti non sono tutti uguali, che ce n’è qualcuno che li ascolta”. E racconta un episodio realmente accaduto: “Organizzammo un meeting con l’associazione di giovani avvocati, parlando della legge n° 5, che riguarda i diritti in caso di arresto: il diritto di chiamare un avvocato, il divieto di non essere picchiato e via dicendo. Invitammo anche la polizia, ma non venne nessuno. Alla fine dell’incontro i giovani fecero dei graffiti sul muro illustrando la legge n° 5 e i suoi articoli. Dopo l’incendio al centro, molti poliziotti vennero qui. La polizia mi chiese: “Perché stai incitando i giovani? Perché metti la legge n° 5 sul muro? “ risposi che è loro diritto sapere. Ci dissero che dovevamo sbarazzarci di quei graffiti”.
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