C’è una madre che bacia il ritratto di suo figlio, inghiottito dal Mare Nostrum nella speranza di una vita migliore. C’è la comunità di Zarzis, che si è stretta attorno ai famigliari che hanno affrontato un dramma simile, chiedendo giustizia. C’è Emmanuel, giovane subsahariano, aggredito da cinque ragazzi tunisini a Sfax, riportando 20 punti di sutura su tutto il corpo. Sono alcuni degli scatti racchiusi nella mostra “The Route of the nameless”, “la rotta dei senzanome” di Giovanni Culmone, visitabile fino al 30 giugno a Kif Kif (Roma). Due volti di un stesso fenomeno, le partenze irregolari dalla Tunisia – di cui si è parlato parecchio in questi ultimi mesi -, raccontati da chi da qualche anno segue queste tematiche sul campo.
Spiega Culmone, fotografo e videomaker: “L’interesse per la Tunisia è nato nel 2021, quando con Matteo Garavoglia e Youssef Hassan Holgado abbiamo realizzato la video – inchiesta “La via del ritorno” (finalista nella categoria video inchiesta del Premio Roberto Morrione per il giornalismo investigativo), che pone l’attenzione sul tema dei finanziamenti Italia – Tunisia non nell’ambito della cooperazione, ma per quanto riguarda i rimpatri. A partire da questo lavoro, ho continuato a sviluppare delle tematiche inerenti alla migrazione, assieme a Matteo. La mostra rappresenta un po’ il percorso di questi due anni, toccando i punti più significativi: la deriva autoritaria del Paese, il naufragio il 21 settembre 2022 di Zarzis, il discorso a febbraio 2023 contro i subsahariani in Tunisia. Una narrazione che cerca di inquadrare la Tunisia nella sua totalità: in Italia i media mainstream raccontano questo Paese come se fosse un monolite, ma la situazione è più complessa, anche per quanto riguarda le migrazioni: è un Paese d’approdo, di transito, di partenza”.
Dodici gli scatti presenti nella mostra: “Racconto chi parte da questo Paese, attraverso storie particolari ed emblematiche. Mi sono concentrato su Zarzis e Sfax. A Zarzis, il 21 settembre scorso c’è stato un naufragio in cui hanno perso la vita 17 ragazzi. Tutti si conoscevano, c’erano persone che avevano già tentato di partire, uno di essi era già stato rimpatriato. Ricordo la madre di uno di questi ragazzi, mi raccontava di come nel suo sguardo ci fosse la sconfitta di chi torna, il senso di colpa di non essere riuscito a rimanere nel Paese. Per quattro mesi i famigliari hanno manifestato per chiedere verità e giustizia. Abbiamo parlato con le madri, con il pescatore che aveva ritrovato il primo corpo senza vita. Alcuni ragazzi erano stati seppelliti nel cimitero degli sconosciuti, poi diseppellivi dalle stesse madri. Le foto ritraggono alcune di queste madri, il sit – in di protesta, è una storia che ha toccato molto la città, una situazione di condivisione. La migrazione dei Tunisini trova in Zarzis un punto centrale”.
Dall’altra parte Sfax, punto di partenza per diversi subsahariani che vogliono tentare la traversata del Mediterraneo: “Le partenze dei tunisini e dei subsahariani sono diverse, sia per i luoghi, che per il periodo, che per le dinamiche stesse: ad esempio i tunisini partono soprattutto d’estate; i subsahariani anche quando la situazione meteorologica non è favorevole. A Sfax abbiamo incontrato la comunità subsahariana tra gennaio e febbraio, prima del discorso di Kais Saied che ha portato ad arresti arbitrari, ragazzi cacciati di casa, università che chiedevano ai propri studenti di non frequentare le lezioni per evitare aggressioni e in tutto questo l’Europa e l’Italia hanno bypassato la questione. Chiedere il pugno di ferro contro le partenze implica questa deriva autoritaria, che è causa stessa di queste partenze, è un acceleratore, crea situazioni invivibili per la comunità, portando a volersene scappare dalla Tunisia. Inoltre il sistema di protezione per i richiedenti asilo in Tunisia non funziona adeguatamente: abbiamo incontrato due ragazzi camerunesi in attesa da due anni.
Anche per chi è titolare dello status di rifugiato, l’iter per richiedere il permesso di soggiorno è lungo e il documento dell’Unhcr non basta, non si può né studiare né lavorare. Un migrante dalla Costa d’Avorio può entrare in Tunisia senza visto, ma dopo tre mesi, alla scadenza dello stesso, la trafila per regolarizzarsi è lunghissima: è come se ci fosse una sorta di volontà per lasciarli nel limbo. Una situazione che viene poi sfruttata anche dalla popolazione: Emmanuel, il ragazzo che è stato accoltellato, viveva in una stanza con la luce ad intermittenza e le pareti nere dalla muffa, con un divano letto, pagando 450 dinari. La situazione era al limite anche prima del discorso di Saied. Emmanuel era stato fermato dalla guardia costiera tunisina e rimandato indietro, per poi essere aggredito da cinque ragazzi tunisini, con ferite che gli hanno provocato 20 punti di sutura. In una situazione del genere, lui era così lucido da riuscire a collegare la violenza subita a una situazione socio economica al collasso. Oggi fortunatamente Emmanuel è riuscito ad arrivare in Italia e sta bene”.
Per chi volesse portare la mostra nella propria città: culmone.giovanni@gmail.com
Giovanni Culmone è un fotografo e filmmaker. Nato nel 1993 nell’entroterra marchigiano, si è laureato in Filosofia presso l’università di Bologna. Ha frequentato la scuola di giornalismo Lelio e Lesli Basso di Roma ed è membro del Centro di Giornalismo Permanente. Ha realizzato diversi lavori per testate italiane ed estere, tra cui RSI, Rainews24, Internazionale, Suddeutsche Zeitung Magazin, L’Espresso, Il Venerdì. Ha vinto l’ottava edizione del Premio Roberto Morrione con la video inchiesta “L’Ordine naturale delle cose” ed è stato finalista nel 2021 con “La via del ritorno”. Ha lavorato in contesti di crisi umanitaria in vari paesi come la Tunisia, Polonia, Armenia, Ucraina.
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