18 marzo 2015, ore 12.30. Dei terroristi armati di kalashnikov cercano di entrare nel Parlamento, falliscono, si dirigono allora verso il Museo del Bardo, sparano ad un autobus di turisti arrivati a Tunisi, ne prendono alcuni in ostaggio e fanno irruzione. 24 persone muoiono, tra cui 21 turisti, un agente delle forze dell’ordine, Aymen Morjen, il cane poliziotto Akil e i due terroristi, altre 45 rimangono ferite. Un bilancio che sarebbe potuto essere ancora più alto senza l’intervento di Mohamed Naceur Hamadi Ben Abdesselem, guida tunisina, che dopo aver sentito i primi spari raggruppò il suo gruppo e fece fuggire le persone da una scala di servizio del museo. L’attentato viene rivendicato dal cosiddetto Stato islamico. I terrosti sono i giovani tunisini Yassine Laabidi e Hatem Khachnaoui.
Di quel giorno ho ancora i ricordi vividi. Era una giornata come tutte le altre, avevo deciso di andare all’Istituto di cultura francese a leggere un po’. Mi ero seduta da poco, quando vedo sul cellulare apparire una notifica dopo l’altra : avevo infatti installato una app, « Tunisie press », che ogni volta che c’erano nuovi articoli sul Paese mi avvisava. Ed è aprendo un articolo dopo l’altro che ho saputo dell’attentato al Museo del Bardo. Poco dopo la notizia ha cominciato a circolare anche sui media italiani e così sono stata sommersa di messaggi attraverso facebook, mail e whatsapp da parte di amici e parenti. “Siamo preoccupati, stai bene? Dove sei?”. Dopo averli rassicurati, ho cominciato a pensare a ciò che era successo, le informazioni erano vaghe, qualcuno parlava di cinque morti ed alcuni feriti, altri media non si sbilanciavano.
Ero senza parole, avevo voglia di urlare ai ragazzi seduti vicino a me cosa era successo, ma sembravano troppi intendi nello studio così sono corsa in Avenue Bourguiba, a cercare un taxi che mi portasse sul posto. Non avevo nulla con me – telecamera o macchina fotografica -, ma sentivo il bisogno di andare subito lì. Ovviamente dato quello che era successo, è stato difficile trovarne uno disponibile : “Al Bardo? Signorina, mi dispiace ma non la porto”. Dopo minuti – che mi sembravano infiniti – di attesa, sono riuscita a convincere un altro taxista, contrattando: mi avrebbe portato lì vicino e poi avrei dovuto proseguire a piedi. Per fortuna invece ho trovato una gentilissima signora che, dovendo passare lì vicino, mi ha fatto salire insieme a lei su un altro taxi, lasciandomi davanti al blocco della polizia e senza nemmeno volere che pagassi qualcosa per la corsa.
Nel frattempo il telefono ha cominciato nuovamente a squillare : erano le redazioni che mi chiedevano contributi su quello che era successo. Apro una breve parentesi giornalistica. Collaboravo con diverse testate, ma mi contattarono anche da una televisione nazionale per chiedermi di mandare un video – video girato con il cellulare dato che non avevo con me nient’altro e poi mandato via whatsapp in cui spiegavo la situazione e mostravo tutto quanto, mai mandato in onda e mai avuto nemmeno un riscontro, positivo o negativo-. Anche una giornalista di una testata nazionale, con cui collaboravo per un blog su tematiche multiculturali, mi chiese se potevo scrivere un pezzo « a caldo ». Pensando che fosse per il blog e non per il sito nazionale, fraintesi e le dissi di no, che avrei potuto farlo nei giorni successivi. Mi rispose che se volevo fare davvero la giornalista era quello il mio momento, che probabilmente non capivo l’opportunità che voleva darmi. Ma si era nel frattempo fatta sera : gli inviati stavano arrivando sul campo e quindi non servivo più. E’ da quel momento, e da ciò che successe nei giorni successivi, che mi sono detta che non volevo che la Tunisia risaltasse sui media nazionali solo in queste situazioni. Ed è da quell’istante che ha iniziato a maturare in me il percorso che mi ha poi portata a creare L’altra Tunisia.
Tornando al 18 marzo, tutta trafelata, passo i controlli della polizia e finalmente verso le 15.00 arrivo all’entrata del museo. Il pensiero va subito al fatto che in quel Museo ci sono stata proprio un mese prima, in occasione di una mostra dedicata a Paul Klee. Avevamo parcheggiato la macchina davanti all’ingresso ed eravamo entrati senza problemi: nessun metal detector, nessun controllo da parte della polizia. Chi mai avrebbe potuto pensare che un museo fosse preso di mira dai terroristi? Al mio arrivo i cancelli del museo sono chiusi, controllati a vista dalle forze di polizia e dai militari, ci sono transenne e filo spinato. La folla è immensa, il popolo tunisino è accorso per sostenere i militari e gridare il loro sdegno al terrorismo. L’operazione è già terminata, i due terroristi sono stati uccisi. Verso le 16.30 cominciano ad uscire gli autobus turistici con a bordo gli ostaggi: alcuni salutano, altri si nascondeno dietro le tende. Dopo quello che hanno passato essere immortalati dalla stampa è l’ultimo dei loro pensieri. Un pullman ha i vetri rotti, su un altro si vedono i fori di due proiettili.
Al loro passaggio piovono gli applausi festanti del popolo tunisino, abitanti del quartiere e non.La reazione del popolo tunisino è forte ed immediata. “Abbiamo sentito i colpi e siamo venute a vedere cosa succedeva – mi dice Besma, che abita nel quartiere -. Siamo qui perché vogliamo far vedere la nostra solidarietà: noi i terroristi non li vogliamo, li detestiamo. Chi uccide in nome dell’Islam non ci rappresenta: l’Islam è pace, tolleranza, solidarietà”. La figlia Yosra aggiunge: “Non ho paura, ma fa male al cuore sapere di queste vittime. Con questo attacco possiamo dire addio al turismo”. “Vogliono farci paura, ma noi amiamo il nostro Paese – sottolinea Besma – e siamo forti. Dio ci protegga e protegga la Tunisia”.
Leila Dami lavora al Bardo, ma quel giorno era in ferie: «Sono restata in contatto telefonico con i miei colleghi – racconta –: erano terrorizzati. Appena l’operazione è finita sono venuta qui, con questa bandiera tunisina. Non ho paura, provo invece molta rabbia e disprezzo per queste persone che vogliono mettere in ginocchio la Tunisia. Hanno scelto questo luogo perché è simbolico, è un museo che rappresenta la nostra identità e il Parlamento è il luogo del potere. Sono degli assi importanti per l’economia e per il turismo: è chiaro che quest’attentato vuole mettere in ginocchio la Tunisia. Ma se vogliono ucciderci tutti, almeno moriremo in piedi. Sono qui anche per dare un messaggio alla nostra élite: è tempo di unirsi e di difendere il nostro Paese, di andare oltre i partiti. La nostra cultura non è quella del terrorismo o della morte, la nostra è una cultura di pace, del vivere bene, degli scambi culturali».
Tra la folla una donna regge un cartello, c’è scritto «Siamo con i militari e la polizia, no al terrorismo». Si chiama Sharazade: «Sono davvero addolorata per quello che è successo – riferisce –: i turisti sono molto importanti per la Tunisia. Mi dispiace per i morti. Non ho paura: ho fiducia nella polizia e nei nostri militari. La percentuale di persone che non vuole che la Tunisia sia stabile è molto bassa. Il nostro è un popolo forte, può combattere i terroristi. Ma dopo questo episodio è necessario che vengano prese delle misure di sicurezza più forti».
“Bardo Hebdo”, commenta passando un altro tunisino. Le preoccupazioni per le sorti del Paese sono molte. Soprattutto si teme a un calo drastico del turismo, cosa che infatti si verificherà. Tre mesi dopo, un altro attentato, a Port el Kantaoui (Sousse), metterà ulteriormente in ginocchio il Paese.
(Le testimonianze dell’articolo sono state raccolte dalla sottoscritta il 18 marzo 2015 al Bardo, e sono state pubblicate in parte sul blog La città nuova e su L’Eco di Bergamo)
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