Jazia, 43 anni, vedova, un figlio disabile, vive con la famiglia del fratello, la madre e la sorella in un’unica casa. Nessun aiuto sociale, se non una piccola sovvenzione mensile, ma con il costo della vita sempre più alto, i conti faticano a tornare. Jazia esce di casa alle 3 del mattino, per rientrare alle 17, stanca e provata da una lunga giornata di lavoro nei campi. Caricata su un camioncino con altre donne, e trasportata sul luogo del lavoro, che può cambiare di volta in volta. Ciò che non cambia è la fatica che caratterizza le sue giornate : a volte riempie fino a 80 casse di frutta o verdura – casse tra i 30 e i 40 kg – per essere pagata per due giorni di lavoro. Se le casse non sono piene, può rischiare di non essere pagata, nonostante gli sforzi. Un giorno ha assistito a un incidente : il camion che trasportava altre lavoratici, di fronte a loro, si è ribaltato per evitare una mucca, causando morti e mutilazioni. Ma nessuno si è preoccupato della sorte di quelle donne… Jazia per un mese ha smesso di lavorare nei campi, tale è stata la paura. Ma la precarietà della sua vita e il fatto che la famiglia conti sulle sue entrate per sovvenire ai bisogni, l’ha fatta ritornare sui suoi passi.
Saida, 43 anni, sposata con tre figli. Anche lei, come Jazia, inizia la sua giornata alle 3 del mattino e va a lavorare nei campi, subendo, come le altre donne, una violenza verbale e psicologica da parte del « chaffeur », il trasportatore che le porta sul luogo di lavoro, oltre che dallo stesso agricoltore. Una violenza che sopportano in silenzio, per poter continuare a lavorare e guadagnare qualcosa, anche se non mancano i momenti di solidarietà femminile, in cui si spalleggiano per evitare dei licenziamenti e per esigere un miglior trattamento. Fernana, la città in cui abita, si trova in una regione tra le più marginalizzate della Tunisia, nessuna considerazione né da parte dello stato, né della società civile, nemmeno durante la pandemia.
Imene, 35 anni, di Sidi Alouane (Mahdia), madre di 4 figli, tra cui un ragazzo di 15 anni, sospettato autistico, partito illegalmente per l’Italia con la sua benedizione. Imene è cosciente della sua situazione economica e sociale e molto combattiva: è cresciuta vedendo la madre lavorare e il padre aprire un piccolo negozio grazie ai risparmi della prima. Voleva proseguire gli studi, e frequentare il liceo, ma la famiglia gliel’ha impedito. Per quattro anni, dalle 7 alle 16, ha lavorato in fabbrica, consegnando tutto il suo stipendio al padre, con la promessa che sarebbe servito a mettere in piedi un progetto tutto suo, per poi scoprire che questi risparmi sono stati utilizzati per il matrimonio del fratello. Una volta sposata, ha cominciato a lavorare nel campo dell’agricoltura, poiché le entrate del marito non erano sufficienti a coprire tutte le spese. Il suo vissuto l’ha portata a far sì che tra i figli maschi e le femmine non ci siano differenze. Ha venduto la sua parte del terreno di ulivi per pagare il viaggio del figlio, partito illegalmente per l’Italia, dove potrà diventare parrucchiere. Il suo sogno è poter aprire una piccola attività per cambiare status sociale e avere uno stipendio decente e mandare i figli all’università.
Sbika, 60 anni, di Sidi Bouzid, lì dove la rivoluzione tunisina ha preso il via. Madre di 4 figli, si è sposata a 16 anni per scappare da una situazione famigliare opprimente. A seguito di un incidente, il marito non poteva più lavorare e le ha proposto di mandare a scuola uno solo dei figli. Ma lei, che non ha potuto studiare in quanto per i fratelli la scuola era solo per i maschi, non si è data per vinta e ha cominciato a cercare lavoro nel campo dell’agricoltura, unica possibilità nella sua regione. Si è spostata a Sfax per la raccolta delle olive, a Gabes per raccogliere l’henné e a Regueb. Grazie a lei, i figli hanno potuto terminare gli studi. Ma Sbika, nonostante la fatica e lo stato di salute fragile, continua a lavorare poichè i figli non hanno ancora trovato un lavoro dignitoso. E così, per 10 dinari al giorno, continua a prendere la strada dei campi, con tutti i rischi che ciò comporta.
Ounissa, 33 anni, di Kasserine, ha iniziato a lavorare nei campi all’età di 13 anni, vedendo nel lavoro agricolo sia un modo per rendersi indipendente, che un modo per aiutare la propria famiglia. Sposatasi a 25 anni, madre di due bambini, rimasta vedova due anni fa, ha provato a mettere in piedi un suo progetto agricolo, piantando dei mandorli e degli ulivi, annaffiandoli con delle cisterne d’acqua, pagate 30 dinari l’una. Ma il clima molto secco della zona e la mancanza d’acqua hanno fatto sì che il progetto non riuscisse a prendere piede.
Jazia, Saida, Imene, Sbika, Ouinissa, sono l’altro volto della Tunisia. Quella Tunisia agricola, dove i diritti sono solo sulla carta, ma spesso calpestati. E a farne le spese sono soprattutto le donne. Donne sfruttate, da caporali uomini, ma che non hanno spesso altra scelta, vivendo in zone marginalizzate e dove la mentalità maschilista e machista è ancora molto forte. Proprio per affrancare queste donne e per far sì che i loro diritti vengano rispettati, è partito a febbraio 2020 – terminerà a marzo 2023 – il progetto Faire della ong toscana Cospe. Faire sta per « Donne che lavorano nell’Agricoltura : Inclusione, Fare rete, emancipazione ». Il progetto interviene per lottare contro l’assenza di leggi e politiche sociali adeguate, e sostenere organizzazioni della società civile, che spesso non sono sufficientemente attrezzate per contrapporsi a una mentalità patriarcale, discriminatoria e allo sfruttamento del lavoro delle donne nel settore agricolo.
« Queste donne sono pagate dal 30 al 40% in meno rispetto agli uomini e rispetto allo Smag, il salario minimo agricolo garantito per la legge – spiega Amina Benfadhl, coordinatrice del progetto per Cospe -. Per poter lavorare, si affidano a degli intermediari, che prendono una percentuale sul loro guadagno. Si crea così un caporalato, non solo sulla rete dei trasporti, ma anche su altri fronti, e spesso si tratta di vicini o famigliari. Sono donne che in generale vivono in località isolate, lontane dal centro della città, e non hanno accesso ai servizi dello Stato : ciò le rende più fragili. Inoltre si tratta di un lavoro stagionale, in nero : non hanno un’identità professionale legale, e ciò le sottopone a una maggiore vulnerabilità economica . La maggior parte ha tra i 35 e i 50 anni, le più giovani non vogliono più lavorare la terra e spesso le più anziane hanno problemi di salute e non riescono più a lavorare la terra. Il rischio è la perdita della manodopera agricola : ci sono regioni in cui il raccolto va a male proprio per questo motivo ».
Il salario minimo agricolo previsto dalla legge è di 16,512 dinari al giorno (circa 5 euro) per sei ore di lavoro : ma spesso le ore sono più di otto al giorno, pagate tra i 10 e i 15 dinari, perché una percentuale del guadagno va agli intermediari. Più ore di lavoro, meno soldi, nessuna copertura sociale, nessuna presa in carico in caso di incidenti sul lavoro, mancanza di igiene e di misure di sicurezza. E, oltre alla situazione lavorativa precaria e degradante, le donne devono spesso fronteggiare situazioni famigliari non semplici : « Spesso ci si ritrova con donne che sono sotto l’autorità patriarcale – continua Amina -, con il marito che impedisce loro di lavorare ; magari riescono a liberarsi di questo aspetto, ma si ritrovano schiave dei propri figli, che non lavorano, e costrette quindi a lavorare nei campi per mantenerli ». Donne nonostante tutto forti, che resistono e che cercano non solo di lottare per garantire ai figli un futuro migliore, ma anche di creare sinergie e reti per riprendersi i propri diritti.
Il progetto Faire si interseca con il progetto Flower, che coinvolge invece donne che lavorano nel settore della trasformazione dei prodotti. Un modo per rispondere alle difficoltà accentuatesi con la pandemia degli ultimi due anni, per le lavoratrici agricole e per le produttrici, sia in termini della continuità della produzione, che per gli sbocchi sul mercato. In questo modo, si cerca di creare canali di vendita alternativi : dalla vendita a km zero, al marketing on line. In generale i mariti sono rimasti senza lavoro a causa del Covid, e questo le pone in una situazione di doppia precarietà economica, dovendo lavorare di più per compensare la perdita economica del marito. Circa 150 le donne coinvolte nei due progetti, in diverse zone : Jendouba, Kasserine, Mahdia, Sfax e Sidi Bouzid.
« Lavoriamo su tre livelli – prosegue Amina – . In primo luogo, per un anno e mezzo, abbiamo fatto un lavoro di ricerca – azione sul campo, dove le stesse donne agricoltrici hanno raccolto le istanze, i problemi e i bisogni delle loro consorelle. In secondo luogo, stiamo cercando di rafforzare gli attori intermediari, come le associazioni ed i sindacati : nella zona di Sidi Bouzid le donne si stanno organizzando dal basso per creare un sindacato che si concentri sullo sfruttamento lavorativo nel settore privato. Oltre allo sviluppo di iniziative di diverso tipo, come la mutualizzazione del trasporto. In terzo luogo, stiamo cercando di avere un’incidenza politica per intervenire nelle proposte di legge e nelle politiche nazionali legate al settore agricolo, soprattutto per quanto riguarda la convenzione nazionale quadro sull’agricoltura, che non ha ancora dato vita a delle leggi più specifiche, con l’obiettivo di cambiare la mentalità e le pratiche, coinvolgendo le stesse donne agricoltrici, spesso non coinvolte nelle decisioni che le riguardano».
Per quanto riguarda la guerra in Ucraina e le conseguenze della crisi del grano sul Paese nordafricano, si tratta di un settore in cui la manodopera femminile non viene utilizzata. Ma l’impatto su queste donne potrebbe comunque farsi sentire : « Per queste donne, la preparazione di pane in casa costituisce una fonte di lavoro supplementare. Le continue rotture di stock di farina e semola potrebbero essere un problema ».
La strada è ancora lunga, per i diritti delle donne agricoltrici, ma dei piccoli semi di consapevolezza sono stati piantati e qualcosa si sta muovendo.
Per maggiori informazioni : http://tunisia.cospe.org/
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