Un’altra via per la Cambogia (Becco Giallo, 2020, 159 pagine) è un reportage a fumetti in cui Takoua Ben Mohamed, graphic journalist Italo tunisina, racconta le due settimane trascorse nel cuore del sud est asiatico a fianco degli operatori umanitari della Ong Weworld, che da 50 anni promuove e difende i diritti dei bambini, delle bambine e delle donne in 27 Paesi del mondo, Italia compresa. In Cambogia opera da 15 anni, proteggendo donne, bambini e bambine da matrimoni precoci, abusi sessuali, traffico di esseri umani e dalla tratta dei migranti. Tematiche che vengono affrontate dall’autrice, che spostandosi nel nord della Cambogia, ha seguito i volontari della ong e ha potuto ascoltare le testimonianze dei social ambassador. Questi ultimi sono persone che provengono da villaggi colpiti dalla tratta, ma sono riuscite a tornare dalle famiglie e a portare la propria esperienza per sensibilizzare i loro compaesani ed evitare che altre persone diventino a loro volta vittime del fenomeno.
Il libro si apre con il viaggio dell’autrice a cui, una volta arrivata in Cambogia, viene chiesto come mai non abbia il passaporto italiano, nonostante provenga da Roma: “Ho voluto aggiungere questa parte personale – racconta – per sottolineare un aspetto della migrazione di cui si parla poco. Si parla molto di migrazione illegale, di morti, di migranti, ma non si toccano altri aspetti, ossia il fatto che non tutti i passaporti abbiano lo stesso valore. C’è chi ha un passaporto più forte e può recarsi in determinati Paesi senza bisogno di richiedere un visto, e chi no: e ciò è la causa principale che porta a intraprendere una migrazione illegale. Non c’è reciprocità: nel caso di queste persone, preferirebbero la via legale, piuttosto che rischiare la propria vita e finire nel traffico degli esseri umani”.
La Thailandia è la metà agognata per la maggior parte dei cambogiani, ma raggiungerla legalmente è molto costoso e difficile: 700 / 800 dollari il costo di un visto, oltre ai mesi di attesa per ottenerlo. Un prezzo molto alto rapportato agli stipendi locali e se paragonato al costo di un viaggio illegale, 70/80 dollari, dieci volte meno. Purtroppo questi tipi di viaggio nascondono diverse insidie: il rischio di essere sfruttati (dai pescherecci alle fabbriche tessili, ai cantieri edili) o di finire in giri legati alla prostituzione sono altissimi e in pochi riescono a ritornare dalla propria famiglia, famiglia per la quale sono partiti, per garantire un futuro migliore. Eppure le conseguenze di questa migrazione si ripercuotono su chi rimane: sui nonni, che si ritrovano a dover badare ai propri nipoti e che, non ricevendo aiuti economici dallo stato, sono sempre più spesso costretti ad abbandonare questi ultimi negli orfanotrofi; sui bambini, che si portano dietro tutta la vita questa assenza e spesso abbandonano gli studi finendo nel mercato della schiavitù infantile.
“Mi chiedo se le persone che dall’Europa si recano nel sud est asiatico per turismo si rendano conto dell’altra realtà del Paese. A Bangkok è pieno di prostitute. Ce le poniamo alcune domande su come siano finite lì? Non ce le facciamo o non vogliamo farcele? Non è un fenomeno solo cambogiano o thailandese, succede in tutto il mondo, anche nella ‘civilizzata’ Europa”. Le persone che incontriamo nel reportage e che raccontano questa scomoda realtà sono tutte persone che Ben Mohamed ha incontrato nel suo viaggio: “Mi sono documentata sul Paese prima di partire, sulla sua storia, sull’attualità politica, anche se ovviamente molte cose non si capiscono se non si vedono con i propri occhi. Ho documentato tutto, fotografando i luoghi e le persone. Queste ultime sono vere, ho cambiato solo alcune piccole cose per non renderle troppo riconoscibili”. E aggiunge: “Sono stata accolta molto bene, c’è una grande comunità musulmana, che vive pacificamente con buddisti e cristiani. I problemi del popolo cambogiano sono diversi, i drammi vissuti ben altri, vanno al di là dell’appartenenza religiosa. Mi aspettavo diffidenza da parte della gente nel raccontarmi il loro vissuto, soprattutto considerando che molti in famiglia hanno perso qualcuno: il genocidio è recente, la ferita ancora aperta, eppure si sono raccontati senza problemi e con positività”.
Il libro si conclude con l’autrice che, durante il viaggio di ritorno, si interroga sul futuro delle persone incontrate e se il suo lavoro possa o meno servire a qualcosa:“ Per me il fumetto è un mezzo di comunicazione più che un’arte fine a se stessa. Dò molto valore al messaggio e quindi mi chiedo se sono riuscita a trasmettere almeno una minima parte di ciò che ho visto. Sono contenta di aver potuto realizzare questo lavoro, sono temi che mi stanno molto a cuore”.
L’articolo originale è stato pubblicato su Il Corriere di Tunisi
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