Imprenditorialità, migrazione, donne e bambini e microfinanziamenti: sono i quattro assi di lavoro dell’associazione ADDCI Zarzis, Associazione per lo Sviluppo Sostenibile e la Cooperazione Internazionale con sede a Zarzis, nel sud della Tunisia. A spiegare le attività dell’associazione, che opera dal 2002, è Esma Bounouh, vicepresidente, 35 anni, ingegnere marittimo. “La mia famiglia è originaria di Djerba – racconta -, ma sono nata e cresciuta a Tunisi. Nel 2014, per lavoro, mi hanno mandata a Zarzis. All’inizio per me è stato uno shock culturale. Inoltre quasi tutte le famiglie avevano qualcuno che era partito irregolarmente per l’Europa. Il modo di vivere era molto più lento, zero stress”. Esma decide di partecipare alla vita della città ed entra in contatto con ADDCI: dapprima come volontaria e poi nel 2016 diventa vicepresidente. L’associazione nel 2019 ha ricevuto un Premio per la promozione della Famiglia e negli scorsi anni un riconoscimento per il suo aiuto ed appoggio allo Stato nella lotta contro la violenza fatta alle donne.
“Il primo progetto a cui ho preso parte riguardava la realizzazione di un centro di presa in carico per le donne vittime di violenza o in situazione di vulnerabilità. Inizialmente avevamo pensato anche a una casa rifugio, ma pensavamo che non fosse necessario per la zona, sbagliando. A Djerba ci sono tante donne che lavorano nel turismo, come lavoratrici domestiche o anche come prostitute. La prima settimana di apertura del centro di ascolto sono venute cinquanta donne. Purtroppo abbiamo avuto anche il caso di una donna che è stata poi uccisa dal marito. L’avevamo inviata per una sistemazione urgente in un alloggio gestito da un’associazione partner a Gafsa, ma poi a causa della seconda ondata di Covid le occupanti sono state evacuate. Si sarebbe poi dovuta spostare in un’altra struttura a Mahdia, ma era troppo lontana. E’ rientrata a casa sua e il giorno dopo il marito l’ha uccisa davanti ai figli. Se avessimo avuto la nostra casa rifugio, probabilmente ciò non sarebbe accaduto. Non se n’è parlato sulla stampa tunisina: quando succede un femminicidio a Zarzis, non trova spazio nei media”.
Il centro ha due operatrici permanenti, formate adeguatamente, ed è attivo anche il fine settimana, attraverso il numero verde messo a disposizione dal Ministero della donna per segnalare gli abusi. E’ stato creato grazie ad un progetto del ministero della Donna e con fondi anche europei: sei i centri creati in totale nel Paese, ma quello gestito dall’associazione è l’unico situato nel Sud est. “Operiamo in regioni conservatrici, dove sono ancora presenti i matrimoni precoci, a meno di 18 anni. Ragazzine che vengono fatte sposare a uomini, spesso della diaspora, dai 15 ai 25 anni più grandi, con cui spesso hanno conflitti e divorziano qualche mese dopo. Donne che smettono di studiare per ragioni economiche, o perché la famiglia non vuole che studino lontane, o perché si sposano presto. Ci sono purtroppo anche molti casi di incesto, che sono ancora un tabù”. La violenza sulle donne è un problema di non poco conto.
“Per quanto riguarda invece l’aspetto sulla migrazione, il nostro lavoro è più recente: è iniziato con la crisi libica e il Coucha camp, il campo al confine con la Libia, che ora non esiste più. Abbiamo purtroppo assistito all’ondata di razzismo di quest’anno, con le persone lasciate per strada da un giorno all’altro. Forniamo loro un kit di sopravvivenza che sia sostenibile. Ma ci occupiamo anche dei tunisini che rientrano volontariamente dalla Francia: assieme a loro, si studia un progetto che sia fattibile sul campo, si forniscono i materiali necessari e li si accompagna in questo percorso. Se si tratta di famiglie, li si sostiene economicamente, pagando loro l’affitto di una casa, le fatture, le varie spese. Ora a questo tipo di progetto prendono parte anche i Tunisini in situazione irregolare che vengono rimpatriati dallo Stato francese. Inizialmente seguivamo il progetto in varie regioni, ma ora siamo stati affiancate da altre associazioni, e ci occupiamo solamente della zona di Medenine, Tataouine e Gabes. Alcuni progetti hanno riguardato invece l’educazione finanziaria per i giovani tunisini vulnerabili, che avrebbero potuto emigrare irregolarmente. Crediamo nel diritto alla mobilità: ma in modo regolare, e con titoli di studio che possano essere effettivamente spendibili. Che sia un progetto di migrazione pensato, altrimenti il rischio è di vivere in condizione non dignitose: pensiamo ai giovani rinchiusi purtroppo nei CPR italiani”.
Diversi i progetti anche per una cittadinanza attiva, coinvolgendo i giovani: “Dal 2019 al 2022, abbiamo attuato il progetto Jasmin che aveva l’obiettivo di dare il suo contributo per una società aperta ed inclusiva per i giovani. Attraverso diverse formazioni e coaching, per far sì che i giovani partecipino alla vita della comunità, e si attivino per la ricerca di un lavoro, un lavoro non per forza da dipendente”. Sulle donne, non sono mancate le attività di formazione, con corsi di sostegno per fare networking e formazioni specifiche su business model, business plan, leadership e tecniche di marketing e progetti, come il progetto Wesa con la creazione del centro “Tidar” (parola che in amazigh significa donna forte, libera), con azioni per il rafforzamento delle capacità femminili e un centro per la presa in carico sociale, economica, culturale e psicologica delle donne, con un aiuto giudiziario per chi non può pagare l’avvocato, un’equipe con assistenti sociali e medici, e diverse convenzioni con i vari Ministeri per fare in modo che ci sia un coordinamento funzionale e continuo.
Ma il progetto più grande attivo attualmente, e che durerà fino a settembre 2024, è “Fast”, che vuole rafforzare il tessuto imprenditoriale femminile a Medenine e Tataouine, attraverso attività di coaching, finanziamenti diretti e microcredito. “C’è bisogno di continuità per poter assicurare l’indipendenza delle donne. Negli anni precedenti in questa zona c’era il progetto WEDIG per limitare la violenza sulle donne tunisine e migranti. Inoltre abbiamo collaborato spesso con Oxfam, per sostenere la donna in tutti gli aspetti possibili, soprattutto economici; in caso di violenza, essere autonoma economicamente è importante”.
“Per il futuro – conclude – vorremmo essere autonomi economicamente per quanto riguarda il Centro di ascolto e presa in carico delle donne: ora dipendiamo dai sostenitori. E sarebbe importante avere una casa rifugio per donne e bambini, oltre a un progetto per l’integrazione dei migranti nel tessuto economico, per evitare che vengano sfruttati. Siamo come una grande impresa con tutto ciò che facciamo, ma senza scopo di lucro”.
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