«L’ho chiamato così, i sette anni buoni, perché suonava meglio, anche se vivo nuovamente in Tunisia da otto. Non mi sono espresso come forse avrei potuto a New York o in altri posti, in questo lungo periodo, ma ho fatto molto lavoro dentro di me. Ho provato sensazioni differenti e, più che risposte, ho collezionato domande. Forse qui non c’è la velocità di altri posti, ma ci sono tante possibilità per esprimersi». Rafram Chaddad è un artista di fama internazionale, che incuriosisce immediatamente. Nativo di Djerba, ha sviluppato il suo talento in molti ambiti: cresciuto a Gerusalemme per scelta del nonno (a sua volta nato in Tunisia ma desideroso di morire nella terra promessa della sua religione) là ha completato i suoi studi artistici. Dopodiché, ha iniziato il suo peregrinare professionale tra la fotografia, il cinema e le installazioni multimediali che sono state esposte in varie sedi di pregio nelle città di Dusseldorf, New York – dove ha lavorato a lungo – Bali, Milano, Lipsia e Monaco di Baviera.
Un talento poliedrico, insomma, che questa volta si è avvalso della collaborazione di altri colleghi – un fotografo, un grafico, un giornalista – per un lavoro che si è sostanziato in un libro fatto di immagini e testi e in una mostra, entrambi presentati nei meravigliosi ambienti della B7L9 Art Station a La Marsa, grazie al supporto della Fondazione Kamel Lazaar. Il vernissage dell’esibizione si è tenuto lo scorso 31 agosto, giorno nel quale Rafram Chaddad ha presentato anche il volume che dà il titolo alla mostra, appunto “The Good Seven Years”. Un libro prezioso, ricco, stampato in sole 400 copie molte delle quali sono già state prenotate. L’evento è stato notevole anche per il fatto che per la prima volta, dopo svariati decenni, un artista di fede ebraica ha presentato un suo lavoro in Tunisia.
Il pesce, motivo ricorrente e fortemente simbolico nella religione
In molte delle sue opere, come nella fotografia “colorizzata” dei suoi genitori davanti alla porta di casa nel giorno delle nozze che fa parte della collezione, si vede una mano che tiene cinque pesci legati da un filo da pesca. Un motivo che ricorre, nel suo immaginario: il pesce, del resto, è un animale fortemente simbolico, nella sua religione. Chaddad ha riprodotto quello stesso disegno più volte, in giro per il mondo. In una serie di case in una strada di Belfast, per esempio. In Germania, dove ha iniziato a decorare alcune abitazioni. A San Francisco, dove un appassionato di arte gli ha chiesto questo “servizio” per casa sua: Chaddad non vuole essere pagato per questo tipo di opera ma, spiega, «chiedo in cambio di mangiare con loro, possibilmente pesce. Così ci si conosce facendo un pasto insieme e, in qualche modo, ci si protegge a vicenda». Un alimento dai forti richiami spirituali e un’occasione di vivere insieme alla gente la sua arte.
Pure l’opera “Fish smuggler” non si discosta dal tema, anche se lo varia: si tratta di una radiografia di una valigia scansionata da un apparecchio di sicurezza da aeroporto nella quale, insieme ai soliti oggetti del viaggiatore – auricolari, spazzolino – compaiono, guarda il caso, cinque pesci. L’opera è direttamente legata a un ricordo di giovinezza di Chaddad: quando, da Djerba, stava per partire per andare a trovare la madre a Gerusalemme, spesso lei gli “ordinava” pesci da portarle a casa, per cucinare il cous cous e consumarlo tutto insieme. Pesci che lui congelava e metteva in valigia, per lo sconcerto degli agenti di dogana a ogni imbarco.
Il desiderio di trovare risposta ai “perché”
Una viva sensibilità per l’uomo, le sue incertezze e il desiderio di trovare risposte ai perché, la voglia di condividere il senso della vita, del viaggio, della conoscenza. Questo è ciò che emerge ascoltando Chaddad e guardando i suoi lavori. Molto affascinante è anche la gabbia metallica installata in una stanza, che contiene pezzi di lastre di marmo cimiteriali e piante adatte alla crescita in acqua. La motivazione che regge l’opera è l’esperienza personale dell’artista nel cimitero ebraico della sua città, spostato in riva al mare dai francesi e diventato, col tempo, ostaggio delle maree, tra lapidi spezzate e piante in crescita continua tra una tomba e l’altra. Chaddad ha catturato la fascinazione di quello che chiama «cimitero in movimento», una specie di danza che coinvolge persone che fisicamente non ci sono più ma il cui ricordo resta vivo in coloro che li hanno amati. Un testo a corredo di un’immagine del libro descrive alla perfezione lo spirito di Rafram Chaddad: «Non ci sono fantasmi nella “Djerbaologia” di Chaddad ma nomi, voci, storie, ricordi, visioni, immagini, frasi, oggetti e odori messi insieme, attraverso l’arte e i suoi spazi, nel momento presente. Accettare la proposta politico-culturale di Chaddad significa capire che il passato giudaico-tunisino non è cristallizzato nel passato come un feticcio, ma è vivo nel presente e, in virtù di ciò, oggi si possono formulare nuove possibilità».
E se restano dei dubbi, di fronte a una sua opera, va benissimo così: «In questo mondo concettuale, capita spesso che la gente ti chieda “cosa significa?” di fronte a un’installazione o a un’immagine. Non importa, che cosa significa. Importa che tu la guardi e vivi la tua esperienza. Guarda, cresci, cerca di capire. Come faccio io. Puoi farlo anche se non sai nulla di arte né hai mai incontrato un ebreo».
La presentazione tunisina è stata condotta in presenza dei “compagni di viaggio” di Chaddad. «Negli ultimi sette anni ho vissuto in Tunisia lavorando principalmente su archivi, storie di immigrazione e storie visive, pur essendo molto attivo nel mondo dell’arte al di fuori della Tunisia. Il libro contiene opere d’arte degli ultimi sette anni, immagini di attività che ho intrapreso, alcune ricette alimentari e pure un saggio critico artistico completo scritto dall’artista visivo e studioso Yigal Nizri. Il design del libro è a cura di di Paul Mesnager. Devo dire che, per me, la vita in Tunisia è stata ed è tuttora un sogno. Come indigeno della minoranza ebraica di Hara Sghira a Djerba, dopo il grande tumulto nei rapporti tra ebrei e arabi, tornare in Tunisia è stato allo stesso tempo reale e onirico. Il nome del libro e della mostra derivano proprio da quella sensazione di vivere in una sorta di sogno biblico, mentre si vive una vita reale nella Tunisi contemporanea».
La mostra è visitabile fino al 31 ottobre.
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