Traduciamo, dal francese, il rapporto di una ricerca svolta tra Sfax, Zarzis e Medenine da Martina Costa di Avocats Sans Frontières e Alessandra Sciurba, ricercatrice presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Ne emerge un quadro molto interessante sui richiedenti asilo in Tunisia e sulle responsabilità dell’Italia e dell’Europa.
Sfax, Zarzis, Medenine, luoghi contraddistinti da una storia antica, da secoli di scambi e di interazioni. Amazigh, Fenici, Arabi ed Europei hanno solcato le acque del Mediterraneo per installarsi in questi luoghi. E come all’epoca, ancora oggi, i turisti, i capitali e anche i rifiuti italiani fanno lo stesso movimento da nord a sud. A ritroso di questo movimento verticale, che impone gli interessi del Nord, troviamo i movimenti disarticolati di coloro che vengono dal Sud con delle motivazioni molto diverse e che tentano di farsi largo e costruirsi un cammino di sopravvivenza in una geografia dello spazio razziale ed escludente. Per le donne, gli uomini e i bambini subsahariani, ma anche per sempre più tunisini, queste città sono dei punti di arrivo e di nuove partenze, attraverso questo mare di speranza e di morte.
La Tunisia, spesso descritta come il solo Paese delle cosiddette « primavere arabe » è attualmente al centro di un complesso processo che fa di essa allo stesso tempo una terra di forte emigrazione e di intensa immigrazione. Mentre almeno 15 mila tunisini sono arrivati in Italia via mare nei primi undici mesi del 2021, almeno 20 mila persone originarie dei Paesi subsahariani hanno attraversato le frontiere tunisine durante lo stesso periodo dell’anno.
Le partenze verso l’Europa si effettuano lungo tutta la costa tunisina, soprattutto a partire dalle Isole Kerkennah, situate al largo di Sfax, città di transito e di cernita di percorsi, situata a soli 120 km da Lampedusa, porta di ingresso dell’Italia. Più a sud, a Zarzis, partono anche numerosi autoctoni :
« I tunisini vendono tutto ciò che hanno e partono »
Questi ultimi sono più o meno coscienti delle difficoltà a cui andranno incontro, secondo le parole degli operatori del centro Tidar, che si occupa principalmente delle donne vittime di violenza e che ha un progetto di sostegno ai « tunisini di ritorno » dall’Europa. Tuttavia dei ragazzi e delle ragazze dai 18 ai 25 anni decidono quantomeno di provarci, alla ricerca « di un altro mondo al di là del mare », quello che i social media mostrano loro :
« Qua non c’è copertura sociale, nessuna stabilità economica, i salari sono bassi »
Zarzis, villa di pescatori e di sole bruciante, è piena di grandi hotel, alcuni chiusi, altri in rovina e, a causa della pandemia, spesso vuoti. Oltre al turismo, l’altra principale attività economica della regione, la pesca, ha conosciuto una crisi negli ultimi anni. Presso la sede dell’associazione « Il pescatore – per lo sviluppo e l’ambiente », incontriamo il presidente Slah Eddine Mcharek che ci spiega, mappe marittime alla mano, come il lavoro di pescatore sia diventato sempre più difficile. Tra le cause, la nuova suddivisione delle zone marittime, che ha trasformato ciò che era prima un mare condiviso, in un vero e proprio campo di battaglia. I Libici catturano le barche da pesca tunisine, esigono un riscatto per i loro equipaggi e minacciano senza riserva coloro che si avvicinano alle acque che considerano come proprie. Il loro nuovo ruolo di « guardiani » del Mar Mediterraneo, in altre parole il loro ruolo di cattura dei migranti, è allo stesso modo invocato dai Libici per monopolizzare questo mare.
Non è un caso se il comandante della cosiddetta guardiacosta libica, di cui i pescatori di Zarzis conoscono bene il nome, è il comandante Bija, che per la Corte penale dell’Aia è un criminale internazionale. In questo contesto, anche il salvataggio in mare è diventato impossibile per questi pescatori che hanno salvato centinaia di rifugiati alla mercé delle onde. Nell’ultimo periodo, anche i Maltesi hanno sparato alle loro barche per la pesca.
« Guardate là ! Li vedete quei due ? Sono due ragazzi di Sfax, vengono qui per aiutarci con la pesca. Tutti i nostri ragazzi sono partiti e, presto o tardi, anche gli adulti cominceranno a partire…. Noi pescatori saremo i nuovi migranti e i nuovi naufragati »
sono le parole di Chamseddine Marzoug, il pescatore ormai celebre nel mondo intero per essere stato il primo a dare degna sepoltura ai corpi trasportati dal mare dopo i naufragi. Nel vecchio « Cimitero degli sconosciuti » riposano circa 400 migranti di differenti nazionalità e religione, seppelliti su due livelli di terra. Tutte le piccole pietre tombali restano senza nome. Tutte tranne una, quella di RoseMary, una giovane Nigeriana che è stata identificata e sulla cui tomba Chamseddine posa regolarmente un fiore.
Quando arriviamo, troviamo il piccolo cimitero ormai chiuso. Da due mesi, il luogo non è più liberamente accessibile. Una delle ipotesi avanzate è che qualche istituzione abbia cercato, chiudendo questo luogo, di appropriarsene e con lui il simbolo della memoria che rappresenta. Con il rischio di snaturare un luogo che è stato, negli ultimi anni, uno spazio di commemorazione ma anche di denuncia. Il nuovo cimitero recentemente costruito con questo scopo e gestito come un monumento non conta che 330 posti disponibili, ormai quasi tutti occupati. Chamseddine spiega poi che le barche che partono per l’Italia hanno perlopiù a bordo delle persone di origine tunisina e subsahariani :
« Se una barca è composta solo da subsahariani, è più precaria »
Le persone subsahariane sono più esposte al rischio di essere vittime di frodi o truffe. Secondo le testimonianze raccolte dall’associazione Terre d’Asile Tunisie a Sfax, non è raro che dopo aver pagato per la traversata, non arrivi nessuna barca e si ritrovino abbandonate sul luogo dell’incontro. Nonostante queste ed altre difficoltà, il numero delle persone provenienti da altri Paesi africani è aumentato in maniera significativa negli ultimi tempi. Il numero di migranti a Sfax è stimato tra 10 mila e 12 mila, la maggior parte provenienti dai Paesi francofoni come la Costa d’Avorio. Quest’aumento è dovuto a più fattori, tra cui il deterioramento delle condizioni nel Paese d’origine e le conseguenze della pandemia mondiale : è il caso delle persone arrivate con un aereo da uno dei Paesi africani per i quali la Tunisia non esige il visto.
Tuttavia è soprattutto il deterioramento delle condizioni in Libia, principale Paese di transito verso l’Europa, che ha spinto così tante persone a cercare rifugio in Tunisia. Come dimostra la mobilitazione dei rifugiati riuniti da mesi attorno alla sede dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite a Tripoli, la violenza nei centri di detenzione libici, che siano governamentali o informali, è sempre più insostenibile. Coloro che tentano di sfuggire agli abusi e alla tortura prendendo la via del mare dopo essersi rivolti a delle reti criminali sono catturati dall’esercito libico, che opera secondo le stesse modalità di queste reti, e portati al punto di partenza : questa è la conseguenza principale del Memorandum of Understanding firmato tra il governo italiano e il dirigente libico Al Serraj nel 2017, poi rinnovato nel 2020 e rifinanziato nel 2022.
Sono sempre più numerosi coloro che hanno tentato la traversata tre, quattro, cinque volte e, dopo essere state vittime di una tratta senza fine, poiché ogni ritono in Libia implica delle nuove torture per estrorcere più soldi, non hanno altra scelta che quella di attraversare a piedi la frontiera terrestre della Tunisia. Lo fanno spesso di notte per nascondersi dalle guardie di frontiera. Alcuni dicono che non si rivolgono a nessun trafficante ; per altri è difficile varcare soli la frontiera tra la Tunisia e la Libia , una distesa di sabbia e di deserto.
Un giovane uomo originario della Sierra Leone, che abbiamo incontrato a Sfax due giorni dopo che ha superato questa frontiera, ci racconta che ha lasciato il suo Paese all’età di 15 anni (ora ne ha 18) e che è rimasto in Libia per tre anni. Ci ha detto di aver provato cinque volte ad attraversare il mare, ma che è sempre stato recuperato da coloro che chiama gli asmaboy (i miliziani) o dai militari libici. « Sono tutti uguali ad ogni modo, collaborano tutti gli uni con gli altri » aggiunge. Ad ogni cattura, ha subito dei mesi di prigione e di violenza finché, stanco di soffrire, ha deciso di passare in Tunisia e, per varcare la frontiera, di marciare per due giorni nel deserto :
« Alla frontiera, la sfida è di evitare gli asmaboys che ci rubano tutto e ci rimandano indietro. La polizia tunisina rimanda indietro anch’essa, ma solamente se ci intercetta alla frontiera ; se non opponiamo resistenza è gentile e non ci picchia. A volte ci dà da mangiare e da bere e lascia passare le donne incinte »
Una donna incontrata a Zarzis ci racconta una storia ancora più terribile. E’ bella e forte, ma i suoi occhi sono spenti, senza speranza e pieni di sofferenza. E’ scappata da un marito violento e ha lasciato il Camerun nel 2021. Ha attraversato la Nigeria, il Ciad e poi il deserto fino in Libia. Dopo un breve soggiorno rinchiusa in un appartamento con altre tredici donne di differenti nazionalità, è stata trasferita in prigione. Là è stata sottoposta ad ogni sorta di abuso per tre mesi, finché una notte riesce a scappare con altre cinque donne :
« Bisognava solo correre ! »
Tutta la notte, per delle ore, per allontanarsi il più possibile da quel luogo maledetto. Una volta arrivate alla frontiera, si sono nascoste fino all’alba, prima di riuscire ad attraversarla arrampicandosi come dei serpenti. Questa donna è ora incinta a causa degli stupri che ha subito ; in Tunisia non ha che il sostegno della sua comunità e della psicologa di Médecins du Monde.
Ma delle persone arrivano in Tunisia dalla Libia via mare, un percorso recentemente prodotto dalle politiche europee di esternalizzazione della frontiera. In seguito alle pressioni esercitate dal governo italiano, che ha fornito delle motovedette per questo scopo, anche la guardia costiera tunisina, nel corso dello scorso anno, si è particolarmente impegnata nelle operazioni di ricerca delle persone che cercano la sicurezza attraverso il Mediterraneo. Hanno intercettato e riportato a terra più di 20 mila persone solo per l’anno 2021, comprese le persone partite dalle coste libiche e quelle (ri)partite dalla Tunisia.
Sono Somali, Ivoriani, Sudanesi, Bengalesi, Eritrei che volevano raggiungere l’Europa, che si ritrovano qui. A Zarzis incontriamo una giovane coppia che ha lasciato la Guinea nel 2017 in ricerca di asilo. Lui ha 30 anni e lei 26. Hanno attraversato il Mali, l’Algeria, la Libia dove sono stati imprigionati. Sono restati tre anni nella prigione di Tarhuna, città libica situata 80 km a sud-est di Tripoli.
Le immagini che lei conserva nel suo cellulare sono la prova del crudele inferno libico : il suo viso tumefatto, i lividi delle botte. Racconta la sua storie nei dettagli ; si ricorda ossessivamente di tutte le date. A dicembre 2019, dopo aver passato cinque giorni a bordo di un gommone sul quale cercavano di fuggire con il loro figlio di tre anni e 125 altre persone, sono stati intercettati dalla guardia costiera tunisina e portati al porto di Zarzis. Il loro figlio, ammalatosi in Libia, non ha ricevuto nessuna assistenza in Tunisia, nemmeno un’ospedalizzazione, finché la sua situazione si è aggravata. E’ morto di negligenza in Tunisia dopo esser sopravvissuto ai campi libici e al mare. I suoi genitori aspettano ancora una risposta alla loro richiesta di protezione internazionale depositata all’Alto Commissario per le Nazioni Unite a gennaio 2020.
Quando prendono coscienza che la Tunisia è un Paese in una profonda crisi, dove è molto difficile per uno straniero senza risorse o per un richiedente asilo, potersi costruire un futuro decente, molti tentano ancora di partire per l’Europa. Ma anche in questo caso, come detto precedentemente, il rischio di essere riportati al punto di partenza è molto alto. I soldi dell’Italia, invece di sostenere la popolazione tunisina che attraversa delle enormi difficoltà sociali, economiche e politiche, sono riversati con il solo scopo di bloccare centinaia di migliaia di rifugiati che cercano una protezione in questo limbo da cui gli stessi autoctoni cercano di scappare. La Tunisia resta un Paese di transito per una grande parte della popolazione migrante, soprattutto per coloro che vi sono arrivati di recente :
« Lavorano qui per guadagnare i soldi che permetteranno loro di tentare la traversata. Conoscono i rischi, ma pensano sempre di fare parte di quella piccola percentuale che ce la farà »
spiega la psicologa di Médecins du Monde che lavora a Zarzis. E se per coloro che arrivano dalla Libia, è possibile trovare qui un po’ di pace rispetto alle torture dei trafficanti e delle milizie, la vita, anche in Tunisia, resta difficile per tutti, tunisini come subsahariani.
Così come la popolazione tunisina, la popolazione subsahariana deve fronteggiare diverse difficoltà, con dei rischi supplementari, come : subire delle espulsioni, degli arresti arbitrari, delle discriminazioni supplementari dovute all’impossibilità di regolare la propria situazione. C’è sempre un rischio di razzismo che, in questo contesto, rischia di propagarsi molto rapidamente. Per le persone arrivate recentemente, non esiste un sistema di accoglienza strutturato, né delle leggi nazionali che regolamentano la richiesta di asilo. Le richieste di protezione internazionale sono trattate dall’Unhcr, nell’ambito di un accordo con lo stato tunisino risalente al 2011. La Tunisia ha subappaltato il servizio a questo organismo dell’Onu, il quale delega a sua volta le gestione della registrazione delle domande al CTR, il Consiglio tunisino per i rifugiati. Ne consegue un’estrema lentezza nelle procedure, una profonda inadeguatezza dei servizi di sostegno offerti. Anche per coloro che sono finalmente riconosciuti come rifugiati, il rilascio di questo status fragile non cambia granché per quanto riguarda le loro condizioni di vulnerabilità in termini di accesso ai diritti.
Queste lacune hanno aggravato le tensioni nelle città come Zarzis, storicamente aperte all’accoglienza, dove la popolazione, negli ultimi mesi, ha avuto delle difficoltà ad accettare la presenza dei migranti alloggiati in massa nelle case dell’OIM (Organizzazione Mondiale delle Migrazioni) e dell’Unhcr. Questi centri, dove le condizioni di vita sono precarie, accolgono senza distinzione uomini, donne, minori e famiglie, tra cui molti intercettati nel mare dalla guardia costiera tunisina. Per qualche settimana, non si fornisce loro che un sussidio insufficiente per condurre una vita degna, mentre i servizi di sostegno giuridico, medico e psicologico – il cui accesso è così severamente regolamentato che ne sono esclusi – non possono coprire i loro bisogni.
Resta particolarmente difficile, anche per coloro che sono arrivati da più tempo, provvedere ai loro bisogni e accedere al mercato del lavoro, già profondamente in crisi, ancora di più dopo il Covid. L’aumento continuo della disoccupazione ha azionato una concorrenza crescente tra i lavoratori tunisini e i subsahariani, anche per gli impieghi nel settore informale, motivo delle tensioni crescenti tra le differenti comunità. E nei settori dove la maggior parte dei lavoratori migranti viene impiegata, lo sfruttamento del lavoro è la regola. Le donne ivoriane incontrate a Terre d’Asile a Sfax, per esempio, hanno descritto una situazione di una vera e propria tratta nel settore domestico, dove i loro compaesani sono truffati da delle agenzie informali che prelevano loro sei mesi di salario in anticipo presso le famiglie senza restituire la minima parte alle lavoratrici.
Per queste persone, superare la frammentazione di genere e nazionale del mercato del lavoro ed ottenere un impiego regolare è praticamente impossibile in un Paese dove la legge di preferenza nazionale è ancora in vigore (per lavorare legalmente come straniero, bisogna dapprima provare che nessun tunisino può svolgere la stessa mansione). La povertà pesa anche sulla possibilità di trovare un alloggio dignitoso ; così dei numerosi migranti si ritrovano per strada, assistiti dalle associazioni locali. Il sovraffollamento nelle poche case disponibili, così come le differenze culturali che, soprattutto in una città conservatrice come Sfax, sono spesso stigmatizzate, in particolar modo ciò che riguarda la libertà delle donne, contribuiscono ad alimentare il clima di tensione con la popolazione locale. In questo contesto i migranti sono sempre più costretti a vivere in quartieri ghetto, in un circolo vizioso che aumenta la discriminazione e la violenza. Inoltre, gli abusi e lo sfruttamento sono raramente segnalati alle autorità dalle persone senza documenti, che hanno paura di essere perseguite e di subire degli abusi peggiori di quelli che cercano di denunciare.
Anche il più fondamentale dei diritti, quello alla salute, è largamente compromesso per le persone migranti in Tunisia. Il sistema sanitario resta spesso economicamente inaccessibile in assenza di copertura sociale e di documenti identificativi, e le barriere linguistiche, per chi non parla arabo, diventano degli ostacoli insormontabili per accedere alle informazioni di base. Anche per i rifugiati riconosciuti, che avrebbero diritto al rimborso delle spese di salute, orientarsi nei servizi e anticipare le somme necessarie diventa spesso una pratica impossibile. La negligenza in materia di condizioni sanitarie dei migranti e dei rifugiati resta diffusa, come mostra la storia della coppia della Guinea incontrata a Zarzis che ha perduto il loro figlio nell’indifferenza generale. Infine, il diritto all’educazione, formalmente garantito, è nei fatti fortemente ridotto per le persone migranti. L’inserimento scolastico dei bambini senza né indirizzo di residenza né certificato di nascita resta un’operazione molto laboriosa, e molti minori sono privati di opportunità di socializzazione e di educazione. A Medenine abbiamo incontrato un giovane Sudanese di 14 anni che attendeva con frustazione e speranza da due anni di vivere il suo primo giorno di scuola in Tunisia.
Esistono più ragioni per le quali la Tunisia stra attraversando un momento di transizione fondamentale che porterà a dei cambiamenti profondi che non possono ancora essere previsti. La situazione evolve rapidamente per quanto riguarda la circolazione delle persone migranti, che siano tunisine od originarie di altri Paesi. Nuova frontiera dell’Europa dopo la Libia, è sfortunatamente prevedibile che il Paese si adatti ai diktat imposti dal vecchio continente, come corrispettivo di accordi caratterizzati da una grande assimetria di potere tra le parti contrattanti.
Le attività rinnovate della guardia costiera tunisina sono già la prova di questa tendenza, con il risultato perverso di rinviare delle decine di migliaia di persone nel limbo tunisino, sprovvisto di qualsiasi programma di accoglienza. La controparte immediata di questa subordinazione rischia di essere l’attivazione di un sistema di respingimento delle persone prese in mare, o di quelle che attraversano la frontiera con la Libia via terra.
E può darsi che la Tunisia non tarderà ad inaugurare anch’essa un sistema di detenzione per le persone migranti, se non sul modello libico, sul modello europeo, e ad esternalizzare a suo turno la frontiera verso altri Paesi africani che giocheranno il ruolo di Paesi di transito, in un effetto domino che, alle frontiere terrestri dell’Europa, dei Balcani e dei Paesi dell’ex Unione sovietica, mostra già delle pericolose derive. Nonostante il fatto che questo processo sia già in atto, e nonostante le difficoltà politiche, sociali ed economiche attorno alle quali il Paese dibatte, la Tunisia potrà essere il laboratorio di un nuovo modello di accoglienza.
In questa terra di arrivi, di transito e di partenze, dove coloro che emigrano condividono lo stesso destino di coloro che immigrano, i percorsi incrociati e sovrapposti di coloro che rivendicano la dignità e i diritti potranno essere l’occasione di una rivendicazione condivisa di giustizia trasnazionale. La Tunisia, che continua a vendere il sale alla Francia a dei prezzi imposti durante la colonizzazione ; la Tunisia, che accetta di essere la guardiana delle frontiere italiane, non opponendosi al trattamento che il governo italiano riserva ai suoi cittadini quando li espelle in massa, avrebbe ancora la possibilità di liberarsi dal giogo della subordinazione economica e politica, e di proporre dei nuovi modelli e delle nuove condizioni, a cominciare da una gestione ragionevole, umana e giusta dei migranti africani.
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