Tra le preoccupazioni principali dell’incontro con i suoceri, ho sempre avuto il timore di non essere ben accetta in famiglia a causa della mia diversa fede religiosa. Durante i primi tre anni di fidanzamento, ad ogni festa religiosa musulmana cercavo di essere gentile, e di fare loro gli auguri, mandando un sms in francese, visto che non conoscevo l’arabo. Tutto tranquillo, finché un giorno come risposta ricevetti dalla suocera un sms: “Grazie mia cara, spero che farai uno sforzo per entrare nell’Islam”. Subito mi arrabbiai, lamentandomi con il mio ragazzo sul fatto che la madre volesse convertirmi già prima di conoscermi, come se l’essere cristiana potesse in qualche modo rendermi una “cattiva ragazza”. Inutili i suoi tentativi nel spiegarmi che dovevo cercare di comprendere la mentalità di sua madre, cresciuta in un ambiente prettamente musulmano. Finché, quest’estate, dopo il matrimonio, con l’incontro vis à vis con i suoceri, e l’immersione nell’ambiente e nella mentalità, ho capito che mio marito aveva ragione.
È difficile, anche per chi pensa di essere di larghe vedute, mettere da parte i propri metri di giudizio ed entrare nei panni dell’altra persona. Per me, è stato così: ho faticato non poco a cercare di scrollarmi di dosso il mio “sguardo occidentale” e la visione della realtà che avevo avuto fino a quel momento.
La suocera, dopo qualche giorno passato da lei, non demordeva nella sua da’wa (Il terminedaʿwa (arabo:دعوة) identifica l’azione di proselitismo dell’Islam. Il vocabolo arabo significa letteralmente “richiamo, appello, propaganda”. “Invitare il prossimo all’Islam” è considerato un dovere dai musulmani): cercava di farmi ripetere la shahada ( La shahāda (الشهادة) è la testimonianza con cui il fedele musulmana dichiara di credere in un Dio Uno e Unico e nella missione profetica di Muhammad), con grande disappunto di mio marito che ad un certo punto le ha detto di smetterla di stressarmi, o avrei finito per odiare sia lei che l’Islam. Io, per tutta risposta, quando mi chiedeva quando sarei diventata musulmana, con nonchalance rispondevo: “Quando lo diventerà suo figlio”, ironizzando sul fatto che, sebbene lei e il marito siano praticanti, mio marito lo sia molto meno.
Poi, piano piano, ho messo da parte il mio atteggiamento difensivo e ho provato a capire il suo punto di vista. Cosa che non è stata di certo semplice. Scambiavo questo suo volermi fare abbracciare l’Islam come arroganza, nel credere che l’Islam fosse la religione della verità e l’unica strada per il Paradiso. Sarà che tutto questo si scontrava con la mia visione di religione: a mio parere, tutte le religioni non sono che diverse strade per arrivare a Dio, e ogni persona sceglie la strada che più è consona al suo essere. Senza contare che io e Dio da qualche anno avevamo qualche conto in sospeso: non gli avevo perdonato il fatto di essersi portato via Andrea, a soli 16 anni, a causa di una meningite fulminante, e poco dopo sua madre. Da quel momento avevo smesso di andare a Messa e di pregare. Ero andata quasi in depressione e quando ero triste andavo davanti alla tomba del mio amico. Per questo non riuscivo a capire la fede delle altre persone. Le invidiavo, ma un’invidia buona, perché avrei voluto anche io avere la stesa fede, eppure non ci riuscivo.
Mi sono messa nei panni di mia suocera, che ha sempre vissuto in Tunisia e che l’unica volta che si è mossa dal Paese è stata per andare al pellegrinaggio alla Mecca. Potevo forse pretendere che una persona, nata e cresciuta in un Paese musulmano, con pochi se non nulli contatti con persone di altra fede, potesse non pensare che la sua religione sia l’unica vera e possibile? No, non potevo pretenderlo. Probabilmente, se non avessi incontrato determinate persone sul mio cammino, anche io non avrei messo in discussione nulla, non mi sarei interrogata sulle altre possibili vie che possono portare a Dio. In fondo, qualsiasi credente pensa che la sua religione sia quella migliore, l’unica vera, se veramente ha fede. E una persona di fede, che crede che la sua religione sia l’unica che porta alla salvezza, cerca di fare capire questo alle persone più care e a cui tiene. Mi è venuto in mente quando, durante il servizio civile, mentre portavo i pasti agli anziani, una signora aveva voluto ad ogni costo regalarmi un suo rosario per proteggermi dal male: nonostante non ci credessi molto, l’avevo accettato per rispetto per la sua fede e convinzione.
Allora ho capito che in realtà quello che scambiavo per arroganza, altro non era che un modo di dirmi che mi voleva bene e che avrebbe voluto la mia salvezza nella vita ultraterrena. Anche il suocero, a cui avevo detto, dolcemente, che mi sembrava che volesse abbracciassi l’Islam solo perché in questo modo avrebbe preso delle hasanat (حسنات=quando un musulmano compie una buona azione ottiene dei punti chiamati hasanat o thawab. Quando questa persona sarà portata dinanzi ad Allah ta’ala per essere giudicata, le sue buone azioni verranno pesate, ed anche le sue cattive azioni (ithim). ) mi ribadiva che per lui ero come una figlia e voleva anche la mia salvezza dell’anima. Niente dunque contro la mia persona o la mia diversa fede. E mi sono resa conto, stando con loro per un mese, che molto probabilmente se fossero vissuti in un contesto di pluralismo religioso, sarebbero stati molto più “aperti” e comprensivi di molte altre persone di mia conoscenza.
“Prima di giudicare una persona, cammina per tre lune nei suoi mocassini”
– proverbio indiano –
L’articolo è stato originariamente pubblicato sul blog Amore senza confini di Giada Frana de Linkiesta.
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