17 dicembre 2010: undici anni dopo, dove sta andando la Tunisia?
Corruzione dilagante, inflazione galoppante, tasso di disoccupazione sempre più alto: sono solo alcuni dei problemi che il Paese nordafricano deve affrontare. Problemi socio – economici che non si sono risolti con la serie di “misure eccezionali” messe in atto dal Presidente Kais Saied dal 25 luglio ad oggi. Un'analisi di Leila Belhadj Mohamed.
Dieci anni di transizione democratica hanno lasciato una maggioranza di tunisini scontenti del destino del loro Paese. Nel corso del decennio, la rabbia crescente si è spesso riversata nelle strade, ma i politici l’hanno sempre contenuta attraverso accordi consensuali e rimedi a breve termine. Infatti, in questi anni, abbiamo avuto modo di vedere una proliferazione di politiche economiche e sociali “concesse” dall’alto – senza quindi tener conto delle vere richietse del popolo – al fine di bloccare temporaneamente il malcontento, e mai per portare a una miglioria nel Paese. La popolazione, però, ha spesso percepito queste misure, soprattutto quelle di austerità come un’interferenza neocoloniale occidentale, e questo ha portato all’idea generale che l’attuale democrazia sia nei fatti un sinonimo di “collasso dello Stato”. E per democrazia intendiamo tutto: dalle istituzioni, al Parlamento, dai partiti, alla polizia mai riformata e sempre violenta, ma soprattutto alla Costituzione, attaccata violentemente durante le manifestazioni pro-Saied avvenute dopo il colpo di mano del 25 luglio scorso.
Alla condizione politica precaria e corrotta, va aggiunta la condizione pandemica della scorsa estate, quando il Paese è stato colpito da un’ondata così forte che ha coinvolto migliaia di persone, trasformando la Tunisia nello Stato con la mortalità pro-capite più alta del continente, e questo ha sconvolto ancora di più la nazione. Tutta queste circostanze hanno legittimato la presa di potere del 25 luglio del presidente Kais Saied, segnando la fine di un’epoca.
Tunisi stava effettivamente affrontando una grave crisi di legittimità quando il presidente ha deciso di agire. La maggior parte dei partiti politici tunisini non hanno sedi in tutto il Paese e rappresentano solo alcuni gruppi di interesse. Il Parlamento ha dimostrato più volte di essere completamente distaccato dalla realtà e dai bisogni della società. Tutti i governi che hanno guidato il Paese dal 2011 sono stati il risultato di compromessi e negoziati informali interpartitici, e non lo specchio dei risultati elettorali. La lista dei problemi nel Paese è estremamente lunga. La corruzione dilagante, l’inflazione galoppante, il tasso di disoccupazione – soprattutto femminile e giovanile – che ha raggiunto percentuali preoccupanti, il ruolo internazionale del Paese inesistente, al punto da non essere in grado di controbattere a politiche migratorie europee discriminatorie per i suoi cittadini.
Ciò significa che il colpo di mano di Saied sia più legittimo del Parlamento? Non necessariamente. Il Presidente è estremamente popolare, come confermano i sondaggi indipendenti, anche se questo è dovuto più al fatto che la classe dirigente che ha guidato il Paese fino ad oggi è ampiamente odiata che alle azioni di Saied. Ma a questo va aggiunto che la Tunisia è stata afflitta dalla pandemia fino all’arrivo dei vaccini alla fine di luglio – in concomitanza con la crisi istituzionale – e ciò ha portato molti a credere che il merito della campagna vaccinale sia completamente del Presidente.
Dal 25 luglio: i problemi economici persistono
Da allora, Saied ha monopolizzato la maggior parte dei poteri. Il Parlamento è sospeso – e lo rimarrà fino alle elezioni del 17 dicembre 2022 – così come diverse parti della Costituzione. Da fine luglio ci sono stati numerosi arresti e i tribunali militari sono diventati più attivi contro i civili. Inoltre, Tunisi è sotto pressione da parte dei suoi partner tradizionali – in primis gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’UE e la maggior parte dei paesi del G7 – così come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale. Inoltre, il Paese continua ad essere un terreno fertile per i tentativi di incursione politica per gli attori regionali, come Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Qatar. E, con sorpresa di molti sostenitori del 25 luglio, i problemi economici non sono finiti dopo la promulgazione di queste “misure eccezionali”. Anche perché, nei fatti, nessuna delle misure prese ha a che fare con i problemi socio – economici. Una volta che l’eccitazione sarà completamente finita, il Presidente stesso dovrà affrontare il fatto che lui, come quelli che ha licenziato, non ha soluzioni immediate e nemmeno un vero elettorato. Per legittimare le sue politiche, Saied usa la classica narrazione populista, dicendo di essere il rappresentante del popolo, di parlare in nome del popolo e di agire per suo conto. Ma ora le parole non bastano più, è necessario agire.
La guerra alla corruzione che sta portando avanti dal colpo di mano sta mandando, nei fatti, segnali espliciti alle personalità più potenti del Paese, serve a ricordare che nessun potere è eterno e che lo Stato di diritto è il miglior garante. Sempre che lo Stato di diritto venga rispettato dallo stesso Presidente.
La nomina a settembre del nuovo governo tecnico, composto per la maggior parte da personalità di successo le cui qualifiche scavalcano qualsiasi affiliazione politica e imprenditoriale – o dei servizi di sicurezza -, più di un terzo delle quali sono donne, è un gesto, per molti, rassicurante. Il fatto che, a quasi tre mesi dalla mossa del presidente Saied, non ci sia stato alcun bagno di sangue e quasi nessun arresto arbitrario (restano eccezionali), mentre le manifestazioni di massa continuano, indica che Tunisi non è passata all’autoritarismo. E, in merito a questo, mi permetto di ricordare l’allarmismo degli “esperti” occidentali che, dal primo giorno, hanno paragonato il colpo di mano di Saied – ricordiamolo, docente di diritto – al colpo di Stato militare di Al Sisi in Egitto, dimostrando per l’ennesima volta incompetenza in merito alle diverse storie dei Paesi nordafricani, ma soprattutto l’orientalismo radicato nella visione europea dei popoli arabofoni.
Restando sul tema dell’informazione e di mosse autoritarie, va comunque ricordato che gli uffici di al-Jazeera hanno subito un’incursioneil giorno dopo la presa di potere, ma i loro giornalisti sono liberi di operare e trasmettere dalla Tunisia. Il collettivo chiamato “Tunisini contro il colpo di stato” non ha potuto organizzare la sua conferenza stampa all’interno di una sala conferenze, così l’hanno fatta fuori, in strada, e nessuno di loro è stato arrestato. Come riportato nel nostro dossier dedicato alla libertà di stampa in Tunisia, dopo il 25 luglio il Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini ha chiesto, oltre ad indagare sulle aggressioni nei confronti dei giornalisti, di mettere in campo una strategia di comunicazione « più aperta » per garantire la trasparenza e il diritto dei giornalisti all’informazione. Dal 25 luglio infatti niente più conferenze stampa, né interviste, né comunicati stampa, niente autorizzazioni ai giornalisti stranieri: i giornalisti devono cercare le informazioni sulla pagina facebook della presidenza.
E ora, dove sta andando la Tunisia? Due possibili scenari
Questo quadro complesso porta a una domanda: dove sta andando la Tunisia? Sembra che ci siano due strade possibili.
Quella ottimista è che il Presidente saprà quando fermarsi, soprattutto se emergerà un’opposizione contro il suo governo da parte dell’opinione pubblica più ampia, colpita dalla crisi economica, così come dai potenti sindacati dei lavoratori e degli imprenditori (UGTT e UTICA), che si sentono minacciati dalle sue azioni. Da un punto di vista internazionale, se le pressioni occidentali per limitare le azioni di manovra di Paesi come l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti – noti per supportare i regimi militari – dovessero funzionare, i risultati potranno essere solo positivi per Tunisi. Sarebbe così possibile riprendere il dialogo tra i principali attori del Paese, sarebbe possibile mettere in atto un nuovo quadro politico e sarebbe più semplice stabilire una tabella di marcia comune per le elezioni anticipate – anche se il discorso del 13 dicembre scorso, la volontà di modificare la Costituzione e il congelamento ad oltranza del Parlamento vanno in una direzione opposta. Questo dimostrerebbe che la democrazia può autoregolarsi: quando le crisi si approfondiscono, vengono prese misure straordinarie, e poi la vita democratica torna in pista. Ci vorrebbe del tempo perché la stabilità ritorni dopo un decennio di instabilità, ma la Tunisia potrebbe rimanere aperta a nuove idee e continuare ad essere un posto meno oppressivo in cui vivere. Questo sarebbe un sistema migliore di quello dispotico, e forse un esempio da seguire per le vicine Libia e Algeria.
Lo scenario pessimistico è quello in cui “il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe assolutamente“. Più aumentano le pressioni dall’interno e dall’estero, più il Presidente potrebbe mostrare ostinazione. L’opposizione verrebbe affrontata con la forza, e la legittimità popolare diventerebbe la legittimità dell’oppressione. Qui, man mano che gli stabilimenti di sicurezza e militari acquistano importanza, saranno tentati di accumulare essi stessi più autorità. In questo scenario, i campioni regionali dell’autoritarismo sarebbero i principali finanziatori, eventualmente affiancati dalla Cina, che a sua volta incoraggerebbe le autorità tunisine a sfidare i loro partner occidentali. Ma un sistema autoritario in una repubblica già afflitta dalla corruzione e da una burocrazia frammentata, situata in una regione instabile, non è una ricetta per la stabilità. Le debolezze strutturali dello Stato non sarebbero riformate, e i diritti umani sarebbero distrutti. Il modello Tunisia sarebbe finito. La Rivoluzione sarebbe completamente fallita.
E il rischio del fallimento della Rivoluzione è dietro l’angolo: se la popolazione non rimane in allerta e non segue passo per passo il progetto di riforma costituzionale che vuole presentare Saied, è molto probabile che si torni indietro di dieci anni.
È nell’interesse di tutti che si discuti la crisi attuale, sia per evitare interferenze esterne, sia per poter diventare un interlocutore serio nei tavoli che contano, in particolare a quelli delle istituzioni economiche i cui diktat neoliberisti hanno distrutto l’economia del Paese.
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