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Matabbia – seconda giornata: tradizioni a confronto

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La seconda giornata di Matabbia – Siciliani in Tunisia, Tunisini in Sicilia – esperienze di convivenza, è stata incentrata sul tema “tradizioni a confronto”. Silvia Finzi, nel suo intervento “i nomadi del mare: buttare le proprie reti da una parte e dall’altra del Mediterraneo”, si è interrogata sul perché in Tunisia si sia sviluppata particolarmente la pesca da parte dei siciliani. “La storia della pesca in Tunisia sarebbe lunga da raccontare: diciamo che la pesca è stata condotta dai genovesi e siciliani in momenti storici diversi. Se leggiamo i vari testi scritti durante il protettorato francese, si dice che la pesca è un monopolio italiano in Tunisia. 

Dopo le varie crisi che si sono succedute, le tonnare sono diminuite, per concentrarsi sulle grosse tonnare come quella di Monastir e di Didi Daoud, ma è sempre rimasto un affare in mano agli italiani. Ma chi pescava? Erano tutti della regione di Trapani e venivano anche solo per un lavoro stagionale e poi ritornavano in Italia. L’emigrazione stagionale provocherà a Mahdia una reazione abbasta xenofoba, anche se non è propriamente il termine giusto, una reazione di estraneità rispetto ai pescatori. Erano visti come una minaccia all’identità locale, gente con i quali non si doveva stabilire un contatto perché erano senza patria e senza fede. La presenza dei pescatori siciliani a Tunisi e dintorni era dovuta a degli accordi tra il giovane stato nazionale italiano e la reggenza di Tunisi. 

I francesi, nonostante ci abbiano provato più volte, non ce la faranno a limitare l’importanza della pesca degli italiani in Tunisia. Nonostante l’avversità della popolazione locale verso questa presenza, alcuni giovani a poco a poco si avvicineranno a questi pescatori e cominceranno a lavorare e a imparare da questi nomadi del mare. E all’indomani seconda guerra mondiale, dopo l’interdizione dell’emigrazione stagionale, saranno proprio queste persone a riprendere completamente l’attività della pesca a Mahdia e riusciranno ad avere un ruolo sociale estremamente importante. La pesca e i pescatori saranno infatti i vettori fondamentali del cambiamento sociale ed economico della città di Mahdia”. 

Il cibo dell’altro fra accoglienza e rifiuto: percorsi di integrazione attraverso l’alimentazione

L’intervento di Marinette Pendola, nata a Tunisi, scrittrice e scrittrice e studiosa della storia della collettività italiana di Tunisia, ha invece parlato dell’alimentazione della comunità siciliana in Tunisia e della storia tutta al femminile che si racchiude dietro di essa. “Quando penso al cibo, immediatamente penso alle donne: è proprio nel silenzio delle loro cucine che hanno elaborato la materia prima procurata dall’uomo, che diventa ciò che chiamiamo la nostra tradizione gastronomica. C’è tutto un lavoro culturale che nei secoli si è accumulato e ha trasformato l’elemento primo in cibo eccellente. Se io penso alla melanzana che diventa caponata, compio un gesto culturale: non solo nutro, ma mi connota culturalmente: non faccio la mussala o la ratatouille. Il cibo è un elemento fortemente connotante ed identitario. Attraversi ciò posso esprimere desideri, sensazioni, sentimenti, memoria, ma anche mitologia, cosmologia.

Il cibo esprime anche l’attaccamento alle proprie radici e allora andiamo verso il migrante. Cosa trasforma un individuo in migrante? L’impellente necessità di riempire la pancia è l’obiettivo primo, ma il migrante quando parte porta con sé dei saperi, dei gesti ancestrali, degli ingredienti che servono per nutrirsi, tutto un immaginario, parte con l’illusione che la terra che troverà è il Paese della cuccagna. Le abitudini e le tradizioni si evolvono a contatto con le nuove culture e non sempre si trovano gli ingredienti a cui si erano abituati. In Tunisia abbiamo fatto un grande lavoro: ci eravamo resi conto che le depositarie degli antichi saperi stavano scomparendo per motivi anagrafici e abbiamo notato che attraverso l’alimentazione si può costruire la Storia di una collettività. Molto presto nella cucina siciliana sono entrati cibi appartenenti agli altri gruppi, ma come era l’alimentazione dei primi siciliani arrivati in Tunisia? Non abbiamo molta documentazione, se non quando la camera di commercio di Tunisi pubblica un opuscolo per la fiera di Milano nel 1906 e descrive un po’ questa popolazione, dicendo che mangiano un po’ di pasta e le erbe raccolte attorno all’accampamento. Sono i due elementi che connotano i siciliani agli occhi degli altri gruppi. I tunisini chiamano i siciliani basal, cipolla, perché mangiavano pane e cipolla e mangiatori di erbe, i francesi li chiamavano macaruni e durante fascismo sale macaruni, “sporchi macaruni”.

Come fa la cucina tunisina a penetrare nella comunità siciliana in Tunisia? A livello popolare, siciliani e tunisini convivono nei cantieri e vivono negli stessi quartieri popolari. Ci sono ricette provenienti anche dalla cucina francese, una cucina  della  medio alta borghesia, che entra nella cucina siciliana dopo la seconda guerra mondiale per due motivi: uno forse politico, la francesizzazione forzata della popolazione italiana che porta di conseguenza a francesizzarsi anche nei gusti. La cucina francese penetra per spirito di emulazione attraverso le ragazze che lavorano nelle famiglie francesi, inoltre la scuola italiana non c’è più, le ragazze si sono francesizzate con la scuola e con la lettura di riviste francesi. Si passa alla cucina al burro, si introducono le salse a base di latte e di conseguenza avvengono le prime difficoltà perché la parte più anziana fa fatica ad accogliere questa cucina. Finito questo periodo di innamoramento si torna pian piano a un po’ di equilibrio.

Finora vi ho parlato di accoglienza, ma in che cosa consistono invece i rifiuti? Cosa era inaccettabile per noi siciliani in Tunisia? Tutti quegli italiani che sono diventati francesi, per distinguersi da noi disprezzavano l’alimento che ci caratterizza di più: la pasta. Non mangiavano più pasta e dicevano: ‘voi italiani che cultura gastronomica avete? Avete solo la pasta!’. La cucina siciliana di Sicilia ha avuto una sua evoluzione: si è sempre più aristocratizzata, introducendo ingredienti che nella cucina popolare non esistevano. Noi che siamo tornati in età adulta in Sicilia, con la nostra tradizione alle spalle, abbiamo trovato strano che uva passa e pinoli fossero messi dappertutto. Anche quando racconto la ricetta  della mia caponata, mi dicono che è all’antica. Eravamo siciliani in Tunisia, siamo diventati siciliani di Tunisia. Vorrei poter andare nelle cucine delle donne tunisine che vivono a Mazara: credo che potremmo imparare un sacco di cose”.

Tavola rotonda: donne tunisine di Mazara del Vallo, donne siciliane di Tunisi

La giornata di ieri si è conclusa con una tavola rotonda in cui donne italiane nel italo tunisine hanno raccontato esperienze di vita e di ricerca sul tema, moderate da Lavinia Giacobbe. Rita Strazzera, membro della società Dante Alighieri, ha raccontato il suo legame con la Tunisia e con la Sicilia: “Sono nata in Tunisia e sono siciliana: ci tengo a dirlo, mio padre era di Trapani, mia madre di Marsala. Attraverso mia madre ho ricevuto questo amore per la Sicilia, che col tempo è diventato sempre più forte. Si può dire che la Sicilia è il mio sangue, la Tunisia il mio Paese del cuore. Ho avuto un’educazione siciliana molto rigida: a casa mia non si poteva uscire e ciò mi stava molto stretto perché ero molto curiosa di andare verso gli altri, imparare a conoscere e fare mie cose altrui. Mi sono sposata, ho avuto dei figli e ho cercato di inculcare a loro un’educazione che non ho ricevuto. Non è un rimprovero: i miei genitori mi hanno educato in un modo che ritenevano giusto. Io accetto tutto, penso che sia un arricchimento essere a contatto con gli altri, non si può rimanere nel proprio ghetto con le proprie idee, senza impregnarsi delle idee degli altri. La Tunisia mi ha dato tanto. Ma tu chi sei? Mi chiedono spesso. Io sono un mosaico fatto da tanti tasselli: ho fatto mia la lingua, qualche tradizione, il modo di mangiare, noi siciliani di Tunisia siamo un po’ tutto, figli del Mediterraneo”.

Gloria Frisone, antropologa culturale e ricercatrice dell’Università degli Studi di Pavia, ha cercato di riflettere sulle storie tutte al femminile che ha raccolto durante il suo ultimo lavoro sul campo, paradigmi di una storia minore. “Le testimonianze delle donne incontrate a Tunisi sono una forma paradigmatica delle storie minori, analizzando il fenomeno della diaspora italiana in Tunisia. Ad esempio la storia di Rosalia (nome di fantasia), che nel tracciare la sua storia di vita inizia a tessere una narrazione patrilineare. Parlando di sé, parla di una storia minore appartenente agli uomini della sua famiglia. Gli uomini sono voci mute che rappresentano in realtà i protagonisti della storia maggiore: si parla di mestieri, di opere anche architettoniche che hanno lasciato segni in Tunisia e Rosalia conferma questa ipotesi iniziale. La seconda storia di vita è quella di Lina, 87 anni: originaria di una famiglia siciliana, ha generato una famiglia mista. Lei tesse una trama narrativa del sé che ci fa focalizzare l’attenzione sull’utilizzare un linguaggio misto, con anche accenti diversi. Questa donna è nata a Monte Erice, ma è segnata da un doppio luogo di nascita fin dalle origini della sua storia. Quando parla italiano vi è un uso quasi sintattico del continuo riflessivo pluralizzato, ma con un accento del nord Italia perché la famiglia quando torna in Italia va a vivere a Ornavasso (Verbania).  Nata a Tunisi a un certo punto va a vivere lì, allontanata dalla madre perché si innamora di un gendarme tunisino che andava a trovarla nella panetteria di famiglia. Alla fine torna a vivere in Tunisia e lo sposa. La sua è una storia d’amore che si conclude con un lieto fine. Queste due testimonianze ci fanno riflettere sulla nozione che è tornata più volte tra ieri ed oggi: il concetto di identità. L’identità, come queste storie ci insegnano, è una narrazione che si fa a posteriori. Non esistono in realtà identità rigide. Tutte le cose rigide sono patologiche, tutte quelle flessibili sono funzionali. La storia delle migrazioni, queste storie minori di donne che veicolano identità in trasformazione, ci dicono proprio questo”.

Il pubblico alla seconda giornata di Matabbia

Giada Frana, direttrice de L’altra Tunisia, ha riportato invece alcune tradizioni di donne tunisine a cui ha assistito nei suoi anni di permanenza e conoscenza della Tunisia, dalla nascita di un neonato, alle tradizioni legate alla cura del corpo, fino alla cucina: “Una delle tradizioni più affascinanti che ho osservato è la ceretta araba fatta in casa. È un vero e proprio rituale di bellezza per le donne tunisine. Immaginate: zucchero, acqua e limone, riscaldati fino a creare una pasta malleabile che poi viene utilizzata per la depilazione. Un gesto antico, tramandato di madre in figlia, che richiede una certa maestria. Io, devo ammetterlo, non ci sono mai riuscita! Ogni volta, i miei  tentativi falliti si trasformano in caramello che finisco per mangiare… La cosa che mi colpisce di più è la cura di sé che queste donne hanno. E forse dovremmo prendere esempio!  Anche nei piccoli gesti quotidiani, come usare rimedi naturali per ogni tipo di problema. Febbre? Un panno imbevuto di acqua di zhar e geranio sulla fronte. Mal di pancia? Semi  di helba, ovvero fieno greco. E per il raffreddore, qualche seme di nigella, il rimedio  preferito del profeta Muhammad. Sembra che ci sia una risposta naturale per tutto! Ma queste donne non si fermano al passato: stanno anche plasmando il futuro. Mi viene in mente Azza Bdioui, un’imprenditrice che ha trasformato le ricette della nonna in un vero business con il suo progetto Cuisart al Kef. O ancora le donne tessitrici del Kef e di Gabes, le donne di Kasserine che raccolgono l’halfa, un’erba resistente e difficile da lavorare, che viene utilizzata per realizzare cesti, tappeti e oggetti di arredamento dal design moderno… Le donne in Tunisia sono la colonna portante della società. Non solo custodiscono le tradizioni, ma si battono anche per il cambiamento. In una società dove il maschilismo è ancora radicato, lottano per un futuro migliore, per loro stesse e per le generazioni che verranno. E secondo me, è soprattutto grazie a loro che queste tradizioni continuano a vivere, passando di mano in mano, con un tocco di modernità”.

Rihab Said, tra i referenti della comunità tunisina, e mediatrice linguistica nei Cpr e  per i minori non accompagnati, ha voluto riflette sul concetto di monopolio della donna tunisina a Mazara. “Le donne tunisine, avendo i mariti che lavorano in mare e stanno via di casa per minimo una settimana, qua da una parte non hanno un’integrazione, ma allo stesso tempo hanno il monopolio su tutto perché fanno sia la donna che l’uomo, soprattutto quando ci sono dei figli. Piano piano, attraverso questi ultimi, si assiste a un’integrazione della donna con quella mazarese. Prima il velo molto coperto, con colori scuri, poi si ha un adattamento del vestiario, una cultura linguistica e uno scambio di informazioni anche culinario. Si hanno adattamenti e assimilazioni tra donna mazarese e tunisina”.

Il regista italo – tunisino Ali Ben Mohamed

L’ultimo intervento è stato di Seyma Chemli, specializzata nell’ insegnamento e che da 10 anni lavora allo sportello multilingue di Poste italiane: “Sono nata e cresciuta a Mazara, sempre stata tra le due rive del Mediterraneo, mi sento strettamente mediterranea. Quando frequentavo la scuola tunisina, mio padre ha voluto insegnarmi sia l’arabo che l’italiano, così non mi sarei trovata in difficoltà né in Tunisia dove andavo in vacanza d’estate, né in Italia dove vivevo. Lavorando nell’ufficio postale ho incontrato molti mazaresi nati tra 35/40/48 a Tunisi. Per me questa è una cosa magica, questo Mediterraneo è un continuo scambio. Mi sento fortunata e ricca dentro e fuori, è una grande ricchezza saper parlare arabo, tunisino, italiano, il dialetto mazarese. Più ricca di così non posso esserlo, anche se ho avuto delle piccole crisi quando ero piccola. Quando andavo in Tunisia ero l’italiana, qui ero la tunisia, ma io cosa sono? Sono mediterranea”.

La sera, al Teatro Garibaldi, è intervenuto il regista italo – tunisino Ali Ben Mohamed, che ha parlato del suo progetto – ancora in corso – riguardante un documentario che racconta proprio la storia di Mazara del Vallo, dando la parola ai suoi abitanti, italiani e tunisini.

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