A scuola ero “la marocchina”, ora sono medico
Wassila, trasferitasi al nord Italia nel 2003, dopo le prime difficoltà linguistiche è riuscita a diventare la prima della classe. Ma la vera sfida è stata la facoltà di Medicina: “Quando dicevo che volevo diventare medico chirurgo tutti erano sorpresi, come se uno straniero non potesse farcela. Ai giovani come me dico: se avete un sogno inseguitelo”
L’Italia è una parola che senti tantissimo quando cresci in Tunisia: è il sogno di tanti, quello di poter raggiungere il Belpaese, trovare lavoro e sistemarsi, un po’ l’equivalente del “sogno americano”. Un sogno non facile da realizzare, date le politiche rigide di immigrazione che negli ultimi anni hanno reso sempre più difficile l’ingresso nel nostro Paese.
L’immigrazione tunisina nel nostro Paese è iniziata negli anni ‘80. Attualmente sono tantissimi i tunisini che hanno formato una famiglia e che stanno cercando di crescere i propri figli e di garantire loro – come tutti i genitori – un futuro roseo, un futuro che forse non avrebbero avuto se fossero restati in Tunisia.
Abbiamo il piacere di avere la testimonianza di una giovane tunisina di seconda generazione che, partendo da una condizione sfavorevole, è riuscita a farsi spazio nella società italiana avverando il suo grande sogno, un sogno che aveva fin da bambina: diventare un medico. Ora sta preparando il concorso per poter accedere alla specialistica e diventare così medico chirurgo. Una testimonianza che ci fa capire che nonostante tutte le difficoltà e i sacrifici, i sogni possono avverarsi, attraverso determinazione e coraggio, due aspetti che caratterizzano la nostra intervistata, Wassila, 29 anni.
Quando sei arrivata in Italia e quale è stato il primo impatto?
“Sono arrivata in Italia nel 2003, più precisamente ad agosto, poco prima dell’inizio dell’anno scolastico. E’ stato sicuramente un momento difficile lasciare tutti ed iniziare questo percorso senza conoscere la lingua. Anche se parlavo francese, che un po’ somiglia all’italiano, è stato difficile, ma soprattutto strano. Il primo giorno di scuola è stato davvero brutto. L’Italia sembrava completamente diversa del mio vecchio mondo, su tutti gli aspetti. Ero l’unica straniera della scuola: all’epoca nonostante sia tunisina, mi davano della marocchina: tutti i maghrebini erano infatti considerati marocchini”.
Da dove nasce la tua passione per la medicina?
“Fin da quando ero piccola, mio nonno mi chiamava dottoressa, perché mi prendevo cura di lui. Col tempo si è quindi radicata questa idea in me: mi piaceva studiare e avevo una curiosità verso tutto. Crescendo l’immagine di me stessa come medico mi piaceva sempre più. D’altra parte aiutare gli altri è un aspetto intrinseco del mio carattere”.
Come sei riuscita a inseguire il tuo sogno e a fronteggiare gli ostacoli che hai trovato sulla tua strada?
“Diciamo che quando sono arrivata ero molto brava, non ci ho impiegato molto ad imparare la lingua: in poco tempo sono diventata la più brava della classe e tra gli studenti più bravi della scuola. Il programma era uguale a quello del mio Paese natale, anche se il grosso lavoro era quello linguistico e sicuramente ci è voluto molto impegno all’inizio. Una volta abbattuta la barriera linguistica e superati i primi anni delle medie, è iniziata la vera difficoltà. Sapevo fin da subito che per realizzare la mia ambizione avrei dovuto iscrivermi al Liceo scientifico, cosa che ho fatto e, grazie alla mia parsimonia e al mio impegno sono riuscita a concluderlo con successo. La parte più faticosa è stata l’università: la facoltà di Medicina è una una facoltà fortemente competitiva e difficile, nessuno ti guarda in faccia, ognuno è impegnato a dare il massimo per assicurarsi la lode e di conseguenza avere la possibilità di scegliere la specializzazione che più gli piace, nel mio caso Chirurgia. L’unica cosa che conta è la determinazione.”
E’ stato difficile da immigrata farti spazio, sia in un’università non abituata granché alla diversità, che nel mondo del lavoro?
“Sicuramente: sono pochissimi gli studenti di origine araba che frequentano la facoltà di Medicina e soprattutto che ce la fanno: nel mio corso non c’era nessun altro oltre a me. Sicuramente è un’università d’élite: tutti erano increduli che io potessi essere lì e farcela, anno dopo anno, soprattutto i miei compagni di corso. La cosa che più mi ha colpita è lo sguardo delle persone quando mi chiedevano cosa stessi studiando: quando rispondevo che ero una studentessa di medicina e volevo diventare una chirurga, il loro sguardo era sorpreso, e la loro risposta mi lasciava ancora più sbalordita: “Wow medicina, ah però ambiziosa!”
Come se per loro l’immigrato non potesse ambire a così tanto; se sei immigrato devi per forza essere un operaio e ti associano subito a lavori umili.
Niente in contrario contro questi ultimi: mio padre è un operaio, ci ha cresciuti fieramente e ci ha spinto a studiare, cosa che lui non ha mai potuto fare, ma la questione non è essere associati a lavori umili, ma è il concetto che si nasconde dietro, ed è questo ciò che mi dà fastidio, come penso darebbe fastidio a chiunque.
Ma basta crederci, essere sicuri di se stessi, delle proprie capacità e soprattutto lasciar perdere le chiacchiere: ce la si può fare, è faticoso, ma non impossibile. E tocca proprio a noi, soprattutto in questo periodo storico, abbattere queste barriere e questi stereotipi”
© Riproduzione riservata