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Jendouba, le lavoratrici agricole: “Dieci dinari al giorno non fanno nulla. Ma non abbiamo scelta”

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La macchina si ferma sul ciglio della strada, dopo aver macinato diversi chilometri dalla città di Jendouba. Si iniziano ad intravedere i filari di ulivi: è la stagione della raccolta, e normalmente ad occuparsene sono le donne, ma di loro nemmeno l’ombra. Hayet Taboui, dell’associazione Rayhana, partner regionale a Jendouba per il progetto Faire, coordinatrice regionale di quest’ultimo, di cui la ong italiana Cospe è capofila, mi fa strada. “Jendouba di base è una città agricola, dove la manodopera è soprattutto femminile – spiega -. Dal 2015 ci siamo avvicinate alle donne lavoratrici agricole: con il progetto Faire abbiamo avuto la possibilità di approcciarci in profondità su queste problematiche, coinvolgendo diversi attori per trovare delle soluzioni adeguate”. Avvicinarsi a queste donne non è stato semplice, soprattutto dal punto di vista emotivo: “E’ stato un lavoro difficile, ascoltare storie di questo tipo, che contengono della violenza in tutti i settori: da parte dell’agricoltore e dell’intermediario;  a ciò si aggiunge l’ingiustizia salariale, l’accesso ai servizi, il lavoro informale, le condizioni di lavoro molto dure. Ma siamo riuscite a guadagnarci la loro fiducia, iniziando con loro delle formazioni e mettendole in rete, rinforzando le loro capacità per fare in modo che possano avere un accesso facilitato ai loro diritti”.

Il nome del progetto, Faire, sta per “Femmes travaillant dans l’Agricolture: Inclusion, Réseautage, Emancipation”, « Donne che lavorano nell’Agricoltura : Inclusione, Fare rete, Emancipazione”. Le donne lavoratrici nel settore agricolo subiscono quotidianamente delle difficoltà sociali ed economiche e delle violenze di diverso tipo, che le mantengono in situazioni di precarietà e di ingiustizia sociale. L’obiettivo di Faire è di sostenere la loro emancipazione socio – economica, con un approccio integrato multi – attore e applicando una metodologia di lavoro partecipativa, che parte dalla donna lavoratrice agricola e l’accompagna ad essere protagonista del cambiamento. Il progetto interviene su più livelli, lottando contro l’assenza di leggi e politiche sociali adeguate e sostenendo organizzazioni della società civile, che spesso non sono sufficientemente attrezzate per contrapporsi a una mentalità patriarcale e discriminatoria e allo sfruttamento del lavoro delle donne nel settore agricolo. 

La rete per la raccolta delle olive a Jendouba – photo credits Giada Frana

Una ricerca – azione per fare emergere i bisogni e le priorità delle donne agricoltrici

Una ricerca – azione lo strumento utilizzato da Cospe per entrare in contatto con queste donne ed addentrarsi nella loro realtà, per fare emergere i loro bisogni e le loro priorità. 91 le donne intervistate, tra donne lavoratrici agricole e della pesca, tra i 31 e 50 anni, con un alto tasso di analfabetismo (53%), dati che spiegano le cause della marginalizzazione e della non conoscenza dei propri diritti e dei servizi a cui poter accedere. Inoltre, delle 72 donne lavoratrici agricole, 69 lavorano in nero, 71% ha subito incidenti sul lavoro e 55% ha subito molestie e violenza sul luogo di lavoro. Il 49% guadagna meno del salario minimo stabilito dalla legge; 55% lavora tramite intermediari; il 50% lavora 6 giorni la settimana; il 27% lavora 7 giorni su 7; 3,5 euro il salario medio giornaliero; 9,30 ore, è l’orario di lavoro giornaliero, se si calcola anche il tempo per gli spostamenti.

Nel frattempo ci viene incontro Saida Mezni, femme ressource (donna risorsa) del progetto, e ci accompagna più all’interno, dove le altre donne stanno lavorando assieme a lei. Una “femme ressource” è una donna selezionata tra le intervistate della ricerca – azione, scelta per la sua determinazione, la presa di coscienza dei problemi e la capacità di mobilitare altre donne: come dice il nome stesso, è una risorsa per la collettività e anche per il processo partecipativo della ricerca – azione e di Faire. Sono donne che poi sensibilizzeranno altre donne, in un circolo virtuoso. Davanti ai nostri occhi compaiono decine di ulivi, su alcuni di esse sono arrampicate le donne, un rastrellino tra le mani, per fare cadere le olive sulla rete sottostante; altre sono chine e cominciano a raccoglierle e metterle nei sacchi di iuta che, una volta riempiti, saranno trasportati a spalla al punto di raccolta. “Devono riempire un sacco tra 70 e 80 kg al giorno, altrimenti non saranno pagate – continua Taboui . E’ un lavoro senza pausa”. Taboui saluta e parla con alcune di loro, che conosce personalmente e che ha coinvolto nel progetto Faire, altre invece, sono volti nuovi anche per lei. Mi guardano con diffidenza, pensano che sia una giornalista tunisina e non vogliono parlarmi: poco tempo fa la televisione nazionale è venuta a fare un servizio al riguardo, ma è stato cambiato ciò che volevano dire, e la fiducia verso i giornalisti è venuta meno. Ma appena viene riferito loro che sono straniera, le cose cambiano e qualcuna di loro decide di raccontare la sua storia. 

Una lavoratrice agricola chiede di essere fotografata a Jendouba – photo credits Giada Frana

Un lavoro in nero e sottopagato

Fotografami, fotografami – mi dice una signora -, e poi manda la foto al nostro Presidente, che veda le condizioni in cui lavoriamo”. L’età della pensione in Tunisia è di 60 anni: ma molte di loro, lavorando in nero, non ne hanno diritto, anche se ora Cospe, proprio grazie a questo lavoro sul campo, è riuscita ad avere un accordo con un’assicurazione supplementare, che permetterà alle donne di avere una copertura sociale minima e di poter mettere da parte qualcosa per la pensione. Un passo avanti, in un settore dove il caporalato continua ad essere presente, difficile da scalfire, e dove queste donne, se vogliono mantenere la famiglia, non hanno altra scelta.

E’ fine gennaio, ci sono circa otto/dieci gradi, e c’è un freddo pungente. Le donne – quasi tutte con l’hijab e con un foulard a fiori verde, tipico della zona di Jendouba (circa 150 km da Tunisi), legato sulla testa per bloccare l’hijab durante il lavoro  – indossano indumenti pesanti, stivali e guanti da giardinaggio. L’intermediario le ha portate lì all’alba, macinando km in piedi sulla cassa di un camioncino, esposte alle intemperie e a rischio di incidenti anche mortali. Come quello, che sollevò un caso nazionale, avvenuto ad aprile 2019, dove persero la vita dodici di esse. Se ne parlò a lungo, ma poi queste donne finirono di nuovo nel dimenticatoio. Eppure, questi incidenti accadono spesso. 

Zohra, lavoratrice agricola a Jendouba – photo credits Giada Frana

Zohra, 50 anni, viene da Fernana, una città a circa 35 km da Jendouba: “Sono lavoratrice agricola da 15 anni. Vengo qui o vado in un altro posto, dipende dalla giornata. Mio marito non lavora e a casa ho quattro figli, alcuni sono grandi, ma disoccupati anche loro, non c’è lavoro. Raccolgo olive, pomodori, patate, peperoni, a seconda della stagione”. Per lavorare dalle 7.30 alle 15.00, guadagna 12 dinari per le olive, 10 per le altre verdure. Anche Noura viene da Fernana: è divorziata e il suo lavoro le permette di mandare a scuola la figlia e di aiutare la sorella disabile: “Vivo nella casa dei miei genitori, che sono morti: mia sorella è disabile e vive con noi. Le condizioni di lavoro sono miserabili: il trasportatore ci porta al lavoro, su un camion non coperto, tutte assieme, in estate c’è il sole, in inverno fa freddo, in qualsiasi stagione le condizioni di trasporto sono penose”. Noura sottolinea il sentirsi abbandonata da tutti: “Nessuno ci ascolta, né il governatore, né le autorità locali, non sappiamo a chi rivolgerci per parlare della nostra situazione. Sono ormai quattro anni che lavoro qui, non ho la copertura sociale, dovrei fare un’operazione, ma non posso farla per questo motivo”. E conclude: “Vorrei che lo Stato faccia il suo ruolo: dobbiamo andare nelle montagne per bere acqua potabile; ci sono aiuti per il rientro a scuola, ma non ricevo nulla, nonostante mia figlia ne abbia diritto, sono obbligata a farmi prestare dei soldi per poterle far continuare gli studi. Non ci sono infrastrutture, spero che possiate venire a vedere in che condizioni viviamo”. 

Noura, lavoratrice agricola a Jendouba – photo credits Giada Frana

Storie con un denominatore comune

Sono storie che hanno un denominatore comune: donne che si alzano all’alba, preparano i pasti per i figli, poi escono per strada, in attesa del trasportatore che le porta nei campi per lavorare, 25/30 donne alla volta, in piedi su dei camion, in balìa delle intemperie e con il rischio di incidenti mortali. Lavorano dalle 7.00 alle 15.00, spesso senza pause, per 10 dinari al giorno, circa tre euro: la paga sarebbe di più, ma una parte deve essere data al trasportatore (solitamente dai 3 ai 5 dinari, ma dipende da regione a regione e da quanti km deve fare il trasportatore). Senza dispositivi di protezione o misure igieniche e, se qualcuna di loro si fa male, non viene nemmeno trasportata in ospedale, ma deve arrangiarsi. Come traspare dalle parole di Saida Mezni, 45 anni, femme ressource del progetto Faire: “Mi alzo alle tre del mattino, preparo la colazione per me e i bambini, prego, mi vesto, ed esco per aspettare il trasportatore che arriva alle 4. Ci vogliono 30/45 minuti per arrivare ai campi; arrivata sul posto, assieme alle altre donne accendiamo un fuoco per scaldarci un po’, scaldare il nostro pasto e mangiare un po’.

Quando arrivo a casa sono le 17: mi occupo dei bambini, ma sono stanca morta, la giornata è molto lunga. Sono 25 anni che lavoro nell’agricoltura, è molto faticoso: si sale sugli alberi, si fanno cadere le olive, si raccolgono, si tolgono le foglie, si mettono nel sacco; c’è anche la violenza da parte dell’uomo che controlla, urla sempre “bisogna lavorare”, non rispetta se la donna è stanca, è un lavoro senza riposo. Nessuno è responsabile, se qualcuna di noi cade e si fa male, la trasportano a casa e la lasciano là, se ne fregano se è viva o morta, non la portano nemmeno in ospedale. È lei che deve andarci da sola e pagare tutto. Ci sono stati diversi incidenti, anche mortali: né lo Stato né altre persone sono venute a vedere la situazione; ci sono donne che hanno male alla schiena o altri malesseri fisici, ma tornano a lavorare perché non hanno altra scelta. Il tutto per 10 dinari al giorno, che non sono niente per riuscire a soddisfare i bisogni della famiglia. Ma non abbiamo scelta. Io ad esempio ho tre figli che studiano, mio marito lavora saltuariamente, è un operaio giornaliero. 60 dinari a settimana, non fanno nulla: vado al mercato settimanale della domenica, compro i legumi, il pollo che costa tra 13 e 20 dinari. I bambini devono avere due dinari al giorno per prendersi da mangiare per la giornata e con i prezzi che continuano ad aumentare, la vita diventa sempre più difficile”. 

Saida Mezni, femme ressource del progetto Faire a Jendouba – photo credits Giada Frana

Un’energia e una dignità da vendere

Eppure, nonostante la situazione che vivono non sia facile, queste donne trasmettono una forza, una dignità e un’energia senza precedenti. E il progetto Faire rappresenta una luce di speranza per permettere loro di riprendere in mano la propria vita e far valere i propri diritti, facendo rete, non lasciando indietro nessuna. “Per quanto riguarda la situazione della donna nella regione – spiega Taboui –, c’è ancora molto lavoro da fare rispetto all’aspetto dei diritti e della presa di coscienza di questi ultimi; bisogna lavorare molto sulla sensibilizzazione, sulla promozione del loro savoir faire. Purtroppo a volte non è prioritario per le donne avere i propri diritti, ma è prioritario avere dei soldi per vivere: per questo motivo accettano tutto. C’è una donna di 72 anni che lavora per la paghetta di suo figlio, che è diplomato; c’è una mentalità per la quale la donna deve lavorare per rispondere ai bisogni della sua famiglia: puoi trovare facilmente gli uomini seduti al caffè e la donna nei campi a lavorare. Con Faire le donne che hanno seguito il percorso con noi hanno cambiato opinione, ora sono delle altre donne: il lavoro di sensibilizzazione è importante proprio per lo sviluppo della personalità delle donne, ma in generale per lo sviluppo della regione. Se la donna arriva a negoziare senza litigare con l’agricoltore, quest’ultimo non ha scelta. Le seguiamo, sanno che c’è una società civile che le sostiene, che non sono più sole. Ora sono coscienti del loro ruolo nella società e questo è molto importante”. 

© Riproduzione riservata 


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