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Matabbia: la prima giornata della kermesse, tra inclusione, convivenze e plurilinguismo

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E’ stata inaugurata ieri la terza edizione di Matabbia: Siciliani in Tunisia – Tunisini in Sicilia, esperienze di convivenze. Nata da un’idea dell’Associazione Banca Marsalese della Memoria, la manifestazione è promossa ed organizzata dall’Istituto EuroArabo di Mazara del Vallo con il patrocinio ed il contributo del Comune. “E’ una manifestazione a sostegno del dialogo e della condivisione, in un momento in cui venti di guerra attraversano il Mediterraneo” ha commentato Giovanni Isgrò, presidente dell’Istituto Euro Arabo. “Mazara non può sottrarsi a un evento come questo – ha sottolineato Salvatore Quinci, sindaco di Mazara del Vallo –: senza la comunità tunisina la nostra sarebbe un’altra città. Siamo gemellati dal 1977 con la città tunisina di Mahdia: la quasi totalità dei 3.650 cittadini di origine tunisina provengono da lì. Ora la guerra è lontana, ma curare le relazioni tra popoli, culture e religioni, anche tenendo alta la memoria di ciò che è stato, serve a tener alto il sogno della pace tra i popoli”.

Francesco Tranchida, presidente dall’Associazione Banca Marsalese della Memoria, ha spiegato l’origine del nome della kermesse: “Per spiegarlo devo parlare dei Siciliani di Tunisia che si stabilirono inizialmente alla Goulette e  nella Piccola Sicilia di Tunisi. Ognuno arrivò con il proprio dialetto, ma col tempo il dialetto diventa unico, propendendo al dialetto parlato nel trapanese. I siciliani nella convivenza con gente locale e francesi inseriscono termini tunisini e francesi. Tutto è traducibile, ma c’è un’eccezione. Matabbia significa speranza per qualcosa e determinazione nel raggiungimento di un obiettivo. Nel pensarci bene, quale migrante del passato e di oggi non ha provato questi sentimenti?

Giovanni Isgrò e Silvia Finzi

Matabbia è anche un’utopia: matabbia potessimo vivere con una mentalità più aperta gli uni verso gli altri, potessimo conoscerci meglio, scambiare di più, parlare la lingua dell’altro e poter creare insieme questa dinamica – aggiunge Silvia Finzi, direttrice de Il Corriere di Tunisi –. É un po’ questa utopia del fare insieme che ci ha permesso di pensare a queste manifestazioni che si sono succedute. Che sia Tunisi, Mahdia, Mazara, Trapani, come noi avevamo sviluppato una cultura italiana dell’emigrazione, qui si sta sviluppando una cultura tunisina dell’emigrazione. Allora possiamo dire Matabbia”.

I saluti istituzionali si sono conclusi con l’intervento di Don Leo di Simone, del Centro Pastorale Operatori di Pace: “Sono figlio di emigrati italiani in Tunisia, conosco la storia. I miei nonni non vollero naturalizzarsi francesi: furono cacciati dalla Tunisia e tornarono in Sicilia. Matabbia scoppiasse la pace. Se non conosciamo determinate cose, non possiamo comprendere i fenomeni del presente e la ricchezza che ha caratterizzato il Mediterraneo”.

Parte del pubblico di Matabbia presso il Collegio dei Gesuiti a Mazara del Vallo

Assimilazione, integrazione, inclusione? Parole chiave tra Africa ed Europa tra passato e futuro

Salvatore Speziale, professore associato in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università degli Studi di Messina, ha fatto riflettere il pubblico presente sul significato di alcuni termini che vengono spesso utilizzati per descrivere il fenomeno migratorio, ma che non sono sempre positivi: assimilazione, integrazione ed inclusione. “Alcune parole hanno una storia pesante, che affonda le radici  nel periodo in cui il colonialismo trionfava in tutto il mondo. Si veda assimilazione, una parola che piace ancora: ci sono diversi politici che la usano parlando di migrazione. Si trattava di una minoranza che si presenta come un modello e che cerca di legare a sé rendendo gli altri simili a sé. È una parola che va contestualizzata e va capita nella sua natura, con tutti i danni che ha causato.

Invece la parola integrazione può sembrare più accogliente e meno legata a un passato remoto coloniale, ma significa mettere al di dentro senza per forza significare che chi viene messo ha delle relazioni alla pari con la società. L’Italia è piena di questo tipo di inserimenti, ma non tutti si sono trasformati in un rapporto alla pari, di interazione continua.

La parola inclusione è più nuova in questo contesto: implica quando elementi esterni sono inseriti all’interno di una società in un rapporto dialogico. Non vi è più un rapporto di sudditanza, esclusione, isolamento, che sono parole che riguardano solitamente l’immigrazione. Se noi riuscissimo a fare un discorso sull’inclusione, in tutte le edizioni di  Matabbia, forse davvero riusciremo ad andare oltre il nostro passato. Ci rimane tanto di quest’Africa del passato: è un punto di partenza per le possibile convivenze del futuro, in un mondo sempre più globalizzato e in cui le presenze sono sempre più complesse e articolate. Dobbiamo studiare e imparare l’uno dall’altro”.

Salvatore Speziale

Convivere, vivere e ricordare: plurilinguismo nelle comunità tunisine in Italia

Luca d’Anna, professore Associato di Dialettologia Araba dell’Università degli Studi di Napoli l’Orientale, ha invece raccontato i suoi studi effettuati sul campo presso la comunità tunisina di Mazara del Vallo: “Quando sono arrivato a Mazara, la prima cosa che mi ha stupito è stato il trovarmi di fronte a un laboratorio linguistico straordinario. Nel nostro paradigma di studi solitamente ci troviamo di fronte a questo processo che si ripete quasi sempre uguale: la prima generazione arriva in un Paese nuovo, che può avere politiche linguistiche molto aggressive o accoglienti; la seconda generazione non parla più la lingua di origine ma la capisce, la terza generazione non parla e non la capisce. Nel mio caso ho realizzato tutte le mie interviste in arabo e mi sono reso conto che parlavo in arabo anche con bambini di terza generazione, uscendo dal paradigma che avevamo studiato. Quello che per un linguista può essere un esperimento interessantissimo, dal punto di vista sociale non lo è altrettanto per chi vive la situazione: questo mantenimento dell’arabo era dovuto a una forma di “segregazione residenziale”, dove una determinata porzione della popolazione vive per scelta o necessità in una parte della città avendo contatti pochi o nulli con l’altra parte della città. Ciò è successo con la kasbah di Mazara: assomigliava a qualunque medina del Nord Africa.

Prima gli italiani non mettevano piede nella kasbah. L’arabo lì era una lingua veicolare: c’erano anche rom e sinti che l’avevano imparata perché parlata per strada. Poi col tempo l’involuzione del settore della pesca, la migrazione di parte della comunità e il fatto che i membri della comunità cominciavano a uscire dal questore e integrarsi in maniera più compiuta nella città, ha portato a un’altra situazione, in cui ora l’arabo si sta perdendo e dove la comunità reagisce a questo sentimento di perdita anche con iniziative messe in campo da membri della comunità stessa per insegnare l’alfabeto, la lettura e la scrittura alle nuove generazioni. Ma per quanto si può andare avanti? Il destino di una comunità immigrata alla lunga è quello di integrarsi quasi completamente nella comunità ospitante. La convivenza qui a Mazara non era violenta, ma era pacifica, fatta di una mutua e rispettosa indifferenza. Un elemento che distrugge queste barriere è la scuola: una volta che i figli vanno a scuola insieme, può passare una o due generazione e l’integrazione avverrà, ma i frutti si colgono se abbiamo la predisposizione a coglierli. Dipende sia dalla predisposizione di chi arriva, ma soprattutto dipende molto da quanto noi siamo disposti ad aprire ad aprirci a chi arriva. Una manifestazione del genere è il luogo ideale per provare a mutare questa percezione senza cadere nella retorica: che sia una manifestazione che porti un elemento ulteriore e vada al di fuori degli ambienti ristretti e che possa essere un mattoncini concreto nello sviluppo di un’integrazione reale”.

Un momento della tavola rotonda dedicato al tema delle “convivenze”

Tavola rotonda: convivenze  

Il tardo pomeriggio è stato dedicato a una tavola rotonda dal tema “convivenze”. Silvia Finzi ha parlato della trasmissione della lingua italiana nella sua famiglia, mantenuta per due secoli. “In Tunisia c’è un clima di convivenza, ma non fai parte totalmente del mondo tunisino. Io sono la quinta generazione, nata in Tunisia, ma non posso dire che sono totalmente o che sono percepita tunisina del luogo. Racconto sempre questo episodio che credo succeda anche qui in senso inverso. Quando ho fatto le mie equipollenze, avevo studiato a Parigi, ho voluto iscrivermi per passare il concorso per entrare in università. Il funzionario del ministero dell’educazione dell’insegnamento superiore mi disse: mi dia il suo contratto di matrimonio. Io non ero sposata e gli avevo dato la mia carta di identità tunisina. Allora non può presentarsi al concorso, mi disse, perché non è tunisina. E io insistevo sul fatto che gli avessi dato la mia carta d’identità tunisina”. 

Karim Hannachi, operatore socioculturale, ricercatore e docente di lingua araba presso l’Università degli Studi di Enna, si è collegato al racconto di Silvia raccontando un aneddoto simile, accaduto all’aeroporto di Palermo: “Stavo andando negli Stati Uniti, dove insegnavo. L’impiegata mi ha chiesto il passaporto italiano, ha visto che il nome non era italiano e ha detto che c’era qualcosa che non andava. Ho sentito la persona con cui parlava chiedere di che nazionalità fossi e lei, pur avendo il mio passaporto italiano in mano, mi ha chiesto di che nazionalità fossi. Le ho detto che aveva in mano la mia nazionalità. Oggi puoi anche avere la cittadinanza italiana, ma non significa avere gli stessi diritti, se poi la tua faccia non corrisponde al prototipo che la gente ha in testa. La mia identità non è definita, è un divenire continuo”.

Ho riflettuto molto su chi sono io, chi siamo noi:  siamo siciliani, tunisini, non tunisini, francesi, francesizzati, italiani? Siamo italiani e? Che cosa? Tunisini e francesi? – si è interrogata Marinette Pendola, scrittrice, italiana di Tunisia -. Sì perché di tutti quei tasselli che formano la nostra identità, ne abbiamo fatta una. Non siamo né italiani d’Italia, né francesi di Francia, né tunisini di Tunisia, siamo tutti e tre. Quel pizzo che si mette tra due stoffe, che si chiama entre deux: ecco, noi siamo quello. Per un certo momento della mia vita ho pensato che ero diversa dagli altri, perché avevo questo bagaglio dietro, ma entre deux è forse un po’ scomodo, ma quanta ricchezza!” 

Marcello Bivona, regista, nato a Tunisi, ha parlato del nuovo documentario sulla vita di Marinette e di un episodio accadutogli tempo fa: “in uno dei primi viaggi a Tunisi, al controllo passaporti il poliziotto di turno mi mise il timbro di ingresso e vedendo che avevo nome italiano ma ero nato a Tunisi mi ha detto: “ma hai due Paesi?” Ho detto sì. “Sei fortunato: me ne regali uno?” È stato indicativo, ha rilevato qualcosa che è cominciato a frullarmi nella testa. C’è anche l’altro versante, dove qualcuno non si sentiva in nessun posto. Ho risposto: “non posso regalartene uno, perché li amo tutti e due.

L’ultima testimonianza è stata di Mohamed Menzli, insegnante di italiano all’Università della Manouba e presentatore di un programma in lingua italiana alla radio tunisina Rtci: “Sono figlio di un matrimonio misto, nato a Mazara del Vallo il 25 aprile, data che mi fa onore. Ho vissuto per qualche anno qui, poi mio padre deciso di partire per la Tunisia e noi con lui. In casa si parlava il tunisino, l’arabo, il castel vetranese, il francese. Questa convivenza linguistica e non solo ho cercato di trasmetterla ai miei figli. Non sono riuscito a far imparare il siciliano, ma l’italiano: ricordo bene che mia figlia è andata a scuola e ha detto: ma nessuno parla italiano, per lei è stato un po’ uno shock. Mia madre in Tunisia ha invece cercato di trasmettere il siciliano: le mie zie paterne lo hanno imparato, una cosa incredibile, tutte le persone che conoscevano mia madre riuscivano a pronunciare le parole siciliane. Attraverso questi elementi che sembrano banali, si passa all’accettazione dell’altro, della pluralità”.

La giornata si è conclusa al Teatro Garibaldi, con la proiezione del film “Italiani dell’altra riva” del produttore Mohamed Challouf, il primo film, realizzato nel 1991, dedicato a questo tema.

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