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Matabbia, terza giornata: un cammino comune verso la pace

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La terza giornata di Matabbia è stata dedicata al “cammino verso la pace”. Prima che i vari relatori prendessero la parola, si è svolta un’invocazione rotariana per la pace, organizzata dal Rotary Club di Mazara del Vallo alla presenza di diverse personalità politiche, tra cui l’assessora al Turismo Germana Abbagnato, e diversi rappresentanti delle varie comunità religiose. Il Vescovo di Mazara don Angelo Giurdanella ha sottolineato che “nel dialogo è importante non solo capirsi, ma anche costruire insieme”, ricordando l’incontro di San Francesco di Assisi con il Sultano musulmano. L’imam Mohamed Hassan ha invece sottolineato il bisogno del mondo intero “di un linguaggio di amore per combattere il fanatismo, l’odio, l’estremismo, il terrorismo mondiale e stabilire i concetti di fratellanza umana”.

Padre Marcus Solo Kewuta, indonesiano, del Dicastero per il dialogo interreligioso, che ha recentemente accompagnato Papa Francesco nel suo viaggio in Indonesia, ha voluto mettere l’accento sulla realtà positiva presente a Mazara del Vallo: “Sperimento qui un’ospitalità straordinaria, un senso di fratellanza, pace, amicizia, comprensione. Mazara del Vallo è un luogo caratterizzato da una pluralità religiosa, arricchita dalla cultura mediterranea”. L’imam della Moschea della Misericordia di Catania, Kheit Abdelhafid, ha ricordato i valori che portano alla pace: “amore, rispetto e compassione sono i pilastri di una vita pacifica. Solo costruendo questi valori nei nostri cuori e nella nostra comunità si crea pace. Ma la pace non è mai passiva: richiede sforzo, dialogo, compassione reciproca. In un mondo pieno di divisioni, in cui la violenza e l’odio sembrano prevalere, è nostra responsabilità lavorare incessantemente per essere ambasciatori di pace”. Presente anche il Presidente dell’associazione Shukran e presidente della comunità islamica di Mazara.

Infine è stato consegnato un premio a don Vito Rallo, in collegamento telefonico poiché in Umbria per un ritiro spirituale, che ha ringraziato del riconoscimento e ricordato che “il dialogo interreligioso è un faro di speranza. Auguro a tutti i rappresentati delle varie religioni di continuare a lavorare assieme per il bene dei nostri cittadini”.

Il momento dell’invocazione rotariana per la pace organizzato dal Rotary di Mazara del Vallo

Le religioni e la pace 

Don Leo Di Simone, presente alla manifestazione in duplice veste – quella del direttore del Centro Pastorale Operatori di Pace e come membro dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo – ha condiviso con le persone presenti una riflessione sulle religioni e sul loro ruolo per la pace. “Il nostro desiderio per la pace si esprime anche con la preghiera. Dobbiamo chiederci perché nonostante le nostre invocazioni, gli auspici che da tutto il mondo giungono per la pace, quest’ultima purtroppo non si concretizza. Siamo consapevoli che dietro il dramma immane della guerra ci siano espressioni ed atteggiamenti di carattere religioso. Mi riferisco ad alcune confessioni religiose, i tre monoteismi: ebraismo, cristianesimo, islam. A questo punto non si tratta di ragionare tra credenti e non credenti, ma pensanti e non pensanti. La mia riflessione sarà una sintesi di un saggio pubblicato di recente sulla rivista Dialoghi Mediterranei

In questo momento storico dobbiamo chiederci perché le religioni sono impotenti di fronte al problema della pace. Religione e fede sono due cose diverse, non li si scambi mai. Dovremmo (ri)trovare la dimensione spirituale, invece le religioni sono ingabbiate nelle strutture istituzionali. Mi ha fatto piangere la dichiarazione di alcuni primi ministri europei sul non mandare più armi ad Israele, simbolo dell’insensatezza della nostra cultura. La nozione che ci siamo inventati in Occidente dalla guerra giusta, è una nozione illogica, non può avere accoglienza nel pensiero. E allora dobbiamo essere critici. Non siamo salvi se siamo in guerra, ma se siamo nella pace. 

La pace è il saluto degli ebrei, dei cristiani, dei musulmani. Se non c’è giustizia tra le nazioni, non c’è pace, e non ci sarà finché perdureranno le macro ingiustizie, finché ci saranno popoli che non hanno nulla, rispetto al nostro Occidente sazio e ricco. Inoltre dobbiamo sfatare il pensiero di un islam invasivo, e vedere invece  l’invasività dell’Europa, con la colonizzazione, che non è finita. ‘Noi crediamo in Dio’, così c’è scritto sul dollaro. Ma quale dio? Il dollaro. Il dio denaro, del commercio, della speculazione, della povertà. Questo abbiamo esportato. Se non leggiamo la storia su queste onde lunghe non possiamo capire la realtà. Quello che sta accadendo non è opera di esseri razionali o spirituali. 

Matabbia come Centro pastorale operatori di pace trovassimo amici, altre persone disposte a lavorare assieme, ciascuno nel proprio ambito, ma convergendo nell’opera della pace, della relazione bella, positiva. Bisogna acculturare i nostri desideri di pace. Questi sono discorsi che non trovano spazio nelle scuole. Ma che futuro possiamo dare ai nostri giovani, quale pace daranno al mondo? Questo è il problema che dobbiamo risolvere”

Una parte del pubblico della terza giornata della kermesse Matabbia

Esperienze vissute di pluralità religiosa 

Mohamed Menzli, docente all’Università della Manouba, presentatore del programma radiofonico italiano alla radio nazionale tunisina RTC e figlio di una “coppia mista”, ha riportato la sua esperienza personale, parlando di come nella sua famiglia si vivesse condividendo due religioni diverse. “Non sono né un uomo di chiesa, né un musulmano perfetto. Ci vuole un po’ di tempo per trovare un equilibrio o una terza via, che non è mai definitiva, ma in continua metamorfosi, serena e cosciente. Questa pluralità di culto e cultura riflette non solo un percorso individuale, ma riguarda anche le due rive del Mediterraneo. Sono figlio di un matrimonio misto, i miei genitori si sono stabiliti a Monastir, sulla costa tunisina. Monastir è un nome fenicio, vuol dire penisola o capo. Ci sono tre Monastir nel mondo, quella in Tunisia, in Macedonia, in Sardegna, con una cosa in comune: tutti sono un luogo di passaggio, dove si incontravano le persone per diverse ragioni. Per la maggior parte degli storici, il nome Monastir deriva dalla parola monastero, mentre Mazara vuol dire mazar, un santuario, un luogo dove le persone si raccolgono per pregare e cercare protezione. Quindi Monastir è una parola che ha origine nel mondo cattolico, Mazara invece ha origine dal mondo musulmano”.  

Menzli ha poi ricordato tre figure per lui molto importanti della città di Monastir:Sidi Mezri, studioso di diritto, esperto di legge, musulmano siciliano, a cui è dedicata una piazza proprio a Mazara nel quartiere Makara. E’ noto soprattutto per una fatwa in cui diceva che i musulmani che vivevano sotto la dominazione non musulmana potevano rimanere in questi luoghi a condizione che fosse loro garantito di vivere sotto la loro legge, pur dovendo pagare imposte e dare fedeltà al signore. Poi Habib Bourguiba, primo presidente della Tunisia. Vi sto raccontando la geografia, ma anche l’aspetto intellettuale dell’ambiente in cui ho vissuto, per farvi capire le intersezioni di quest’ultimo. Bourguiba abolì la poligamia, diede la possibilità di abortire prima dell’Europa. E Guido Medina, morto a Tunisi, personaggio dalle molteplici appartenenze identitarie. Era di confessione ebraica, patria italiana, scrittura francese, ma si definiva come poeta di Monastir. La sua poesia ispira a un mondo di amore, fratellanza, condivisione: incoraggia il lettore ad accostarsi all’opera con uno spirito di tolleranza. 

Oltre a questi elementi socio culturali, ovviamente anche l’aspetto famigliare è stato fondamentale: facilita trovare un terreno comune su aspetti chiave, come l’educazione religiosa dei figli, le festività. Per mio padre era sacro per esempio fare l’albero di Natale, anche se eravamo a Monastir; mia madre faceva Ramadan, anche se le zie dicevano che non c’era bisogno e chiedevano di portare loro le uova di cioccolato. Ricordo diversi litigi sulla questione se fosse meglio l’olio di Tunisi o Castelvetrano, ma mai sulla religione. Alcuni studiosi di sociologia hanno notato che quando due persone si incontrano, ci sono sguardi, sorrisi, non è che la cosa che si chiedono al primo incontro è la religione che professano. L’aspetto essenziale non è la religione, ma l’amore, se volete, l’amore profano. I miei genitori ad ogni modo avevano grande rispetto per la religione. Mia madre mi diceva ‘fai come dice il prete e non fare come fa il prete’, mio padre cambiava la parola in imam. Pensandoci dopo anni, non consiste nel rifiutare la religione, ma nel dire che siamo noi uomini peccatori che deviamo i principi stessi della religione.

Da sinistra a destra, Giovanni Cordova, Mohamed Menzli e don Leo Di Simone

Itinerari del sacro tra migrazioni ed esperienza religiosa 

Giovanni Cordova, ricercatore in antropologia culturale presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli Federico II, ha conseguito il dottorato in discipline etno-antropologiche presso l’Università Sapienza di Roma, conducendo uno studio etnografico sulla gioventù tunisina negli anni successivi alle Primavere arabe, confluito nel volume “Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la Primavera”, ha condiviso con i partecipanti della kermesse i risultati di una ricerca tra Sicilia e Tunisia:Quando parliamo di Sicilia ed islam, ci viene in mente un registro leggendario del passato, ma c’è anche un presente intessuto dalle presenze dei musulmani di oggi, che mobilitano l’esperienza religiosa. I rituali, il sentirsi fisicamente parte di una comunità religiosa, hanno infatti una funzione decisiva. La migrazione è un momento delicato, che interroga una comunità, i confini, il passato. Pensiamo a quante feste, a quanti riti, a quanti momenti religiosi evochino una casa che non c’è più, che è lontana. Nello spaesamento che è una parte della migrazione, le religioni contribuiscono al costruire casa.

Due itinerari si sono riproposti più volte nel corso delle mie ricerche tra migrazione e religioni. Il tema del rapporto con lo Stato italiano è molto sentito, a volte reclinato in un aspetto polemico, perché pregiudica la possibilità di utilizzare locali per uso religioso e il riconoscimento delle festività religiose. Per quanto riguarda le pratiche rituali: come si svolgono le preghiere, quali sono le soluzioni che queste comunità adottano? Ad esempio khutbah (sermone, ndr) in quale lingua si fa? In molti centri culturali islamici oltre all’arabo, anche in italiano; a Messina anche in inglese perché sempre più studenti provengono da zone non arabofone e l’inglese rappresenta un terzo tassello di questo panorama linguistico. Può sembrare scontato, ma non lo è.

Concludo facendo riferimento alla Tunisia, perché negli ultimi anni ho esplorato il paesaggio giovanile nella Tunisia contemporanee rispetto alle migrazioni illegali: siamo noi che abbiamo resi alcuni flussi di persone irregolari e il Mediterraneo un cimitero. Un certo tipo di mobilità senza visto, l’harqa, è un tipo di mobilità che ha anche implicazioni religiose. Harqa, bruciare, ha sia questo tipo di migrazione, ma anche tanti significati, un trasgredire la regola per ottenere un vantaggio temporaneo, ad esempio il passare con il rosso. Questa idea di trasgredire, bruciare, perdere la vita, può essere associata al suicidio, consapevoli di ciò, ed ecco che prestando ascolto a giovani maghrebini che non esercitano dei ruoli particolari nella comunità, questa dimensione affiora nella sua tragicità. Diventa Jihad al nafs, miglioramento di se stessi. Questa visione coincide nell’idea della migrazione come un azzardo. Viene vista e percepita in maniera lucida, come qualcosa che può fare collassare i rapporti sociali. Vediamo persone che cercano i propri figli, i propri nipoti, che cercano le tracce di questi dispersi in mare. Una società non accogliente, che rifiuta, che getta sempre il sospetto sull’altro, sta perdendo molto.

Un momento della tavola rotonda “Una via comune per vivere nella pace”

Una via comune per vivere nella pace

La giornata di è conclusa con una tavola rotonda sul tema “una via comune per vivere nella pace”, moderata da don Leo Di Simone. Eleonora Pipitone, dirigente dell’I.C.S. Borsellino – Aiello, ha portato la sua esperienza in ambito scolastico: “Il nostro istituto ha la più alta percentuale, di alunni stranieri, il 30%, soprattutto provenienti dall’area del Maghreb. Diciamo sempre che l’intercultura la viviamo, non la insegniamo. Le tematiche affrontate in questi giorni a Matabbia le viviamo quotidianamente. La nostra scuola per il primo anno ha deciso di accogliere la richiesta dell’associazione Jasmine del Mediterraneo di aprire il nostro cortile esterno a per festeggiare la fine di Ramadan, ed avere questo momento di condivisione e festa. Questo lavoro di costruzione della pace avviene quotidianamente, attraverso un’informazione adeguata e la risoluzione dei conflitti che possono nascere all’interno delle classi attraverso il dialogo. I nostri ragazzi vivono con noi gran parte del quotidiano, apprendono da noi e siamo il loro punto di riferimento. Dai racconti da parte di alunni e famiglie si sentono accolti da noi. Costruttori di pace si è tutti quotidianamente: una piccola parte spetta a ciascuno di noi. Noi incidiamo sul futuro dei nostri ragazzi, abbiamo una grossa responsabilità e ne siamo consapevoli. Spero che finora abbiamo posto le basi per un miglioramento continuo. Abbiamo realizzato, anche grazie alla proposta della professoressa Angela Asaro, un progetto proposto dalla regione Sicilia, “Mazara, Mahdia, Mediterraneo: 3M per il futuro” . Per la prima volta ho visitato Mahdia e mi sembrava di conoscerla già, ho ritrovato delle caratteristiche di Mazara”

Suor Alessandra Martin, della Casa della comunità Speranza), ha voluto condividere ciò che ha ricevuto venendo a Mazara del Vallo. “Sono arrivata qui sette anni fa, da un altro luogo della Sicilia e portavo nel cuore il voler conoscere Mazara, grazie al racconto di tante sorelle che ci avevano vissuto, proprio nel costruire quotidianamente delle vie di pace attraverso il dialogo, la fraternità, la vicinanza alle persone di cultura, lingua, religione diverse. I nomi che diedero gli uomini tunisini alle suore che arrivavano qui, fu il nome di sorelle: l’esperienza di vicinanza, di sorellanza, fu fondamentale nell’incontro. Negli anni questo dialogo ed ascolto reciproco tra noi e la comunità tunisina ha portato ad ascoltare i bisogni di quest’ultima. Casa della comunità Speranza nasce proprio da un dialogo con la comunità tunisina, da un’esigenza che ci hanno espresso in quel tempo: il bisogno di avere dei luoghi sicuri per i loro figli, perché i pericoli della strada erano sempre lì, incombenti. La comunità è aperta a tutti, a coloro che credono sia importante investire nell’educazione dei propri figli. Facciamo un accompagnamento alla crescita, che parte quasi dalla nascita. Come educatori abbiamo smesso di dire di non parlare l’arabo e fatto invece lo sforzo di conoscere noi questa lingua, condividere le tradizioni, le usanze, le feste, i momenti di preghiera. Oltre a questo ci occupiamo di quei giovani migranti che sono coinvolti nel fenomeno migratorio irregolare: sono persone che non fanno altro che esercitare uno dei diritti che noi abbiamo, che è quello di restare,  un atto doveroso quando si vede minacciata la propria vita e il proprio futuro. Ora mi occupo del coordinamento del lavoro con le comunità migranti sul territorio. Ci sarebbe un forte bisogno di tutori volontari per i minori tunisini non accompagnati che arrivano qui: matabbia avessimo delle famiglie tunisine, pienamente integrate qui, che accolgano qualcuno di questi giovani. Me lo auguro e lavoreremo per percorsi di questo tipo.

Una parte del pubblico della terza giornata di Matabbia

Vito Puccio, presidente della Fondazione San Vito Onlus, braccio operativo della Caritas, ha illustrato i vari progetti ed attività portati avanti in questi anni, che hanno coinvolto anche la comunità tunisina locale: “Questo evento è una tappa di un percorso che dobbiamo continuare a fare, un momento di incontro ulteriore tra la comunità mazarese e quella tunisina. Tra i nostri progetti, uno degli ultimi nati è il progetto donna, un punto di riferimento per le donne tunisine che vivono a Mazara e che hanno fatto una crescita importante. Ricordo le prime volte che hanno iniziato a frequentare questo laboratorio: parlavano dell’io, ora parlano al plurale. Se qualcuno di loro ha un problema, vengono da noi ed è un problema di tutti, non della singola persona o della famiglia: ciò per me è una cosa bellissima e ne sono orgoglioso. Oggi queste donne non sono qui perché incontravano 40 turisti americani: si sono fermati un’ora e mezza per gustare the e dolci e chiacchierare. Anche loro hanno uno stereotipo diverso della donna musulmana, stereotipi che attraverso questi incontri vengono stravolti: purtroppo spesso i media danno visioni distorte dell’Altro. Un’altra cosa importante, una risposta che abbiamo cercato di dare per i bisogni delle famiglie è il centro di ascolto in lingua araba. Ci occupiamo della persona a 360 gradi: bambini, donne, anziani. La mia intenzione è stata quella di aprire gli spazi al territorio: vogliamo essere uno strumento al servizio di quest’ultimo e continuare a farlo con l’aiuto di tutti. Dobbiamo cercare di mettere assieme le persone di buona volontà, di collaborare più profondamente, stare realmente vicini e vedere se possiamo continuare a fare meglio quello che  già oggi facciamo”.

Rihab Said, socia dell’associazione Jasmine del Mediterraneo, ha voluto fare un piccolo excursus spiegando perché abbia scelto di essere facilitatrice linguistica e la nascita dell’associazione, dedicata alla donna maghrebina. “Quando avevo nove anni avevo già le idee chiare su cosa volevo diventare. Ricordo che accompagnavo mia madre dal dottore, lei diceva ‘io ho zucchero’ invece di dire ‘io ho la glicemia’ e io già allora facevo da mediatrice. E così ho fatto: mi sono laureata in mediazione linguistica. Nel 2019 su Facebook è stato creato un gruppo  di donne di Mazara del Vallo, che comprendeva anche le donne tunisine, che si voleva trasformare in un’associazione concreta, ma non sapevano come fare. Ho dato la mia disponibilità, ma non volevo essere la coordinatrice: la donna tunisina ha più fiducia nella persona simile a lei, io sembro invece un ‘misto’ e quindi hanno meno fiducia. Devo ringraziare ad ogni modo questa città perché qui i professionisti, se sentono parlare una donna tunisina utilizzando un verbo all’infinito o che sbaglia, non si mettono a ridere, come invece accade in altri posti. A scuola i bambini se hanno un compagno che non parla italiano, lo aiutano. A Mazara c’è l’integrazione totale: la pace la si vede in questo aspetto. Viviamo in modo pacifico tra le due comunità”.

La conclusione della tavola rotonda è stata di Giada Frana, direttrice de L’altra Tunisia, che ha ricordato la figura di Tiziano Terzani e il suo “lettere contro la guerra”, scritto dopo l’attentato dell’11 settembre: “E’ un libro in cui esorta tutti a cambiare prospettiva e sforzarci per “capire le ragioni degli altri” per non alimentare le tragedie con l’odio o con la paura, bensì con la comprensione e l’Amore. 

“Che differenza c’è fra l’innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le nostre bombe a Kabul? La verità è che quelli di New York sono i «nostri» bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri 100.000 bambini afghani che, secondo l’UNICEF, moriranno quest’inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini «loro». E quei bambini loro non ci interessano più.”

Credo che questo libro e questa frase siano ancora tristemente attuali: siamo talmente sopraffatti da un flusso continuo di informazioni su ciò che accade nel mondo, che non riusciamo più a provare empatia per gli altri. O spesso, proviamo un’empatia solo per determinate parti del mondo, quelle che sentiamo più vicine e simili a noi, quando non dovrebbero esistere vittime di serie A o di serie B. Se si parla di pace, credo che la via per vivere nella pace sia la conoscenza reciproca e il dialogo con l’Altro. Un dialogo in cui i due interlocutori mettono da parte le proprie costruzioni mentali in cui sono cresciuti, i pregiudizi che si possono avere, lo sguardo con cui sono stati abituati a vedere il mondo, e provano a scendere dal proprio piedistallo e a mettersi anche nei panni dell’altro. Vi racconto un’episodio personale: quando ancora non ero sposata, in occasione delle feste musulmane inviavo gli auguri a mia suocera, tunisina, e un giorno mi rispose dicendo “In ‘sha Allah spero che ti convertirai all’Islam”. In un primo momento mi ero arrabbiata: ancora non mi conosceva e voleva già convertirmi? Ma poi capii che  non era detto con cattiveria, ma era un suo modo per proteggermi, per salvarmi in un certo senso, visto che per lei essere musulmana era l’unico modo per avere salva l’anima dopo la morte. E lei era cresciuta, come magari i nostri nonni per quanto riguarda la religione cristiana, con questa convinzione, senza confronti con altre realtà. E allora ho cominciato a vedere questo suo atteggiamento in un altro modo. Ma spogliarsi del proprio sguardo eurocentrico non è semplice. (Qui trovate l’episodio raccontato interamente).

Credo anche che occasioni come queste, in cui comunità diverse vengono coinvolte per raccontarsi reciprocamente, siano un modo per costruire e vivere la pace. Perché è a partire dalla nostra quotidianità, dal nostro piccolo, che possiamo gettare semi di speranza e costruire ponti e non muri. Noi cerchiamo di farlo con L’altra Tunisia, dove narriamo questo Paese a 360°, e raccontiamo la comunità italo tunisina in Italia andando oltre i soliti pregiudizi. Pregiudizi che ci sono su entrambe le sponde del Mediterraneo. Cercando di mostrare che le differenze sono qualcosa che può arricchire, e che l’Altro non è poi così diverso da noi come vogliono farci credere solo per dividerci ed evitare che ci riconosciamo come esseri umani. 

Concludo con una leggenda africana che amo molto: un giorno in una foresta scoppiò un grande incendio. Tutti gli animali stavano scappando per mettersi in salvo, tranne uno: il colibrì. Il colibrì continuava a fare avanti e indietro portando un po’ di acqua nel suo becco per cercare di spegnere l’incendio. Il leone lo vide e gli disse cosa pensava di fare, che con il suo piccolo becco non avrebbe mai spento l’incendio. Il colibrì rispose: ‘io faccio la mia parte’. Ecco, credo che ognuno di noi possa fare la sua parte per la pace, essere un piccolo colibrì, per costruire ponti e non muri”.

Jamel Chebbi, musicista e compositore tunisino durante l’esibizione al Teatro Garibaldi di Mazara del Vallo

La terza edizione di Matabbia è terminata con lo spettacolo musicale « D’autres rivages – altre rive » di Jamel Chebbi, attualmente professore di oud al prestigioso Conservatorio di musica Sidi Saber di Tunisi, musicista e compositore. Un viaggio di condivisione di identità culturali comuni, con epicentro e punto di partenza la sua Tunisia. Lo spettacolo è stato un modo per celebrare la cultura mediterranea nelle sua molteplici contaminazioni, derive e approdi, vissuto attraverso la voce di Chabbi e il suono del suo oud, strumento mediorientale. Le canzoni e le musiche portate sul palco sono state un mix che ha unito Sahel e Mediterraneo, valorizzando il patrimonio condiviso tra la Tunisia, la Libia, l’Algeria e la Sicilia,   arricchite da rielaborazioni e improvvisazioni originali, tartriz e composizioni originali di Chabbi. 

© Riproduzione riservata 


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