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Tunisia: che ne è stato del fosfato? Intervista all’antropologo Stefano Pontiggia

Pochi giorni dopo la sua presa di potere, Kais Saied interviene in un settore chiave dell’economia tunisina, quello dei fosfati estratti nel bacino di Gafsa, nel profondo sud del Paese. Un'azione non nuova, volta a ripristinare il prestigio dello Stato.

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Pochi giorni dopo la sua presa di potere, Kais Saied interviene in un settore chiave dell’economia tunisina, quello dei fosfati estratti nel bacino di Gafsa, nel profondo sud del Paese. Manda l’esercito contro i protestatari che bloccano le ferrovie e accusa senza nominarlo il deputato Lotfi Ali, proprietario di un’impresa di trasporti, di pagare gli agitatori, obbligando la CPG (Compagnie des Phosphates de Gafsa) a servirsi del trasporto su gomma, molto più costoso e molto lucrativo per il proprietario dei camion che godeva fino allora dell’immunità parlamentare e che in seguito sarà arrestato.

Una luce di speranza”, così l’Economiste maghrébin salutava il 31 luglio 2021 la ripresa della produzione dimezzata nel decennio post-Rivoluzione. Meno entusiasta l’antropologo Stefano Pontiggia che nel 2014 ha svolto una ricerca pionieristica a Redeyef, cittadina del bacino minerario “simbolo dell’altra Tunisia, lontana dai grandi progetti finanziati dalle agenzie internazionali e dalle ricchezze della costa1. Pontiggia infatti in questa intervista offre una lettura che relativizza tanto il ruolo dell’institution building post-Rivoluzione quanto quello delle ricette economico-finanziarie correnti ed è centrata sulla grande dicotomia centralità/marginalità.

Nel tuo libro scrivi che “con sempre maggior frequenza negli ultimi quattro anni il processo di estrazione, lavaggio e trasporto dei fosfati è interrotto a causa di movimenti di protesta di vario genere” (p.171). Pensi che la popolazione di Redeyef si sia schierata tra i delusi che hanno visto in Kais Saied colui che avrebbe “rimesso la Rivoluzione sul giusto binario?”

I segnali c’erano. In ottobre 2014 una coalizione variegata guidata da Béji Caid Essebsi ottiene la maggioranza alle elezioni legislative, e il movimento Ennahdha scende al secondo posto. In dicembre lo stesso Essebsi vince le elezioni presidenziali. E mentre una parte dei voti successivamente confluiti su Kais Saied vanno ancora in quel periodo ai partiti tradizionali, Essebsi raccoglie i voti della sinistra che teme l’influenza crescente di strati di popolazione religiosa e conservatrice che a Redeyef sono una componente sociale importante. forte. La questione dell’identità religiosa forse meritava un focus specifico anche se a Redeyef la contrapposizione “laici/ islamisti” non esisteva.

Se a Redeyef la gente non era sensibile alla “minaccia islamista”, perché i voti sono confluiti su una lista indipendente in città, sul partito Nidaa Tounes a livello regionale e infine su Essebsi, segnando in tutti e tre i casi un clamoroso arretramento del partito Ennahdha?

Per diversi motivi. C’è stata l’influenza del sindacato degli insegnanti, che l’arrivo di Ennahdha come organizzazione partitica aveva spaventato. Poi c’era la paura di quello che era successo a Tunisi dopo le prime elezioni: i salafiti che attaccavano le manifestazioni artistiche, o che volevano introdurre il niqab nelle università. C’era un desiderio di modernità che Ennahdha pareva minacciare. Inoltre Ennadha aveva aperto alla partecipazione degli ex RCD. E si mormorava che pagasse gli elettori. Detto questo, sottolineo che capitale e periferia – Tunisi e Redeyef – si muovono con tempi diversi. Le ricadute reali di quanto avviene nella capitale non si sentono in periferia. Kais Saied si è presentato – esattamente come prima di lui Essebsi – come un candidato indipendente, di cambiamento. Ma penso che a Redeyef non sia cambiato nulla.

Eppure uno dei primi atti di Kais Saied dopo il 25 luglio è stato volto alla ripresa della produzione dei fosfati, che per dieci anni, dopo la Rivoluzione, è andata calando a seguito di agitazioni sociali e scioperi da un lato, corruzione dall’altro. Non si è trattato di qualcosa di nuovo?

Anche Essebsi, nel 2015, ha mandato a sbloccare gli scioperi nel settore ferroviario. Era una decisione volta a ripristinare il prestigio dello Stato, così come le azioni di sgombro dei commercianti informali nelle vie della capitale. La CPG doveva funzionare in quanto asset fondamentale dello Stato. Mettendo corruzione e agitazione sociale sullo stesso piano Kais Saied offre una lettura del Paese in continuità non solo con quella di Essebsi, ma anche con quella di Bourguiba. Come i suoi predecessori, anche Saied incarna un’idea di Stato forte. Tutti parlano di corruzione a proposito del commercio abusivo o dell’interesse privato di un Lotfi Ali, ma non vedo grande differenza tra i bayecha che prendono tre dinari al giorno per mettere i teli di plastica sui camion, Lotfi Ali che paga i manifestanti per bloccare la ferrovia e uno Stato che crea posti di lavoro fasulli per mantenere un po’ di pace sociale. Abbiamo a che fare con uno spazio periferico che presuppone un agire centrale, con pratiche clientelari a cui concorrono diversi attori, dal basso e dall’alto, e tra questi lo Stato è un attore fondamentale. I pochi soldi che ci sono vengono usati – che si tratti di Tunisia 2020 o del rilancio del turismo balneare – per mantenere un po’ di pace sociale da qualche parte, in attesa che la coperta si strappi da un’altra parte. Cose che già si vedevano ai tempi di Bourguiba.

Quindi Kais Saied non rappresenta nulla di nuovo?

Non saprei. Sicuramente l’episodio della ripresa della produzione dei fosfati è in linea di continuità con quanto ha fatto Essebsi, con quanto faceva Bourguiba: bisogna lavorare a tutti i costi, senza capire le cause di quanto avviene. La CPG deve lavorare, punto e basta. Kais Saied non appare nemmeno portatore di una visione alternativa dell’economia. Se c’è una linea di continuità in tutta la storia tunisina postcoloniale è una visione – almeno dagli anni ’70 in avanti – liberale dell’economia. Nel contesto della globalizzazione la Tunisia è rimasta incistata nel ruolo di fornitore di materie prime e manodopera a basso costo, dipendente dal prestito, dal FMI e Saied ha le mani legate. Ha potuto permettersi – chiamiamole delle forzature – perché aveva un sostegno all’interno, certo, ma questo non sarebbe stato sufficiente a permettergli di mantenere da un anno e mezzo il Paese senza parlamento. E io su questo non ho sentito critiche all’esterno.

Pensi la tua ricerca possa essere utile oggi?

Sì, perché per quanto fatta otto anni, fa parte di una Storia che inizia a metà dell’Ottocento, che ancora non è finita e non lo sarà tra dieci anni. I processi di cambiamento delle strutture dello Stato, del potere politico, sono molto più lunghi. Sono passati dieci anni da quando la gente è scesa su avenue Bourguiba per cacciare Ben Ali e non è cambiato niente. Ma dieci anni nella storia di un Paese sono un battito di ciglio. I Tunisini vengono da una storia di poteri autoritari dai bey in avanti, cioè da secoli. Dei problemi della marginalità dell’interno del Paese si parlerà ancora tra dieci anni. Se ci ritroveremo tra quattro anni, mi aspetto che saremo più o meno nelle stesse condizioni.

© Riproduzione riservata

1 Stefano Pontiggia, Il bacino maledetto, Verona, ombre corte, 2017, p. 35.

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