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Tunisia, la condanna a Zouhair Makhlouf un passo importante verso la giustizia per le donne tunisine

L'11 novembre 2021 il tribunale di Nabeul ha condannato Zouhair Makhlouf, deputato parlamentare, a un anno di carcere per molestie sessuali e atti osceni in luogo pubblico. Si tratta della prima figura di una certa rilevanza pubblica che finisce in manette per un reato di violenza sulle donne.

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L’11 novembre 2021 sarà ricordato come una data storica per le donne tunisine. Zouhair Makhlouf, fotografato circa due anni prima mentre si masturbava di fronte a un liceo, è stato condannato a un anno di carcere per molestie sessuali e atti osceni in luogo pubblico dal tribunale di Nabeul, città in cui è stato eletto deputato dell’Assemblea nazionale dei rappresentanti del popolo (ARP) nell’ottobre 2019. Si tratta della prima figura di una certa rilevanza pubblica che finisce in manette per un reato di violenza sulle donne. E si tratta, soprattutto, della prima volta in cui le donne tunisine hanno potuto respirare aria di giustizia. 

 

Il percorso del movimento femminista tunisino ha conosciuto un’accelerazione improvvisa nel 2019 con la pubblicazione su Facebook della foto che ha incriminato Makhlouf da parte di una ragazza di 19 anni. Il caso Makhlouf scatenò numerose proteste e provocò la nascita di una pagina Facebook che oggi conta più di 88 mila follower e del conseguente hashtag #EnaZeda (“Me too” in arabo tunisino). Moltissime donne (che sono tali sin dalla nascita o che si identificano come tali) hanno da subito percepito quella pagina come uno spazio sicuro in cui raccontare le loro esperienze di violenza e abusi e rompere così il silenzio assordante che aleggiava (e spesso aleggia) intorno a questo tema in una società ancora fortemente patriarcale come quella tunisina.

Sara Medini, analista politica di Aswat Nissa e punto di riferimento per le donne vittime di violenza

L’ATTIVISMO DI ASWAT NISSA

La vittima che ha portato Makhlouf in tribunale è stata sostenuta da Aswat Nissa, un’associazione femminista che inizialmente gestiva la pagina Facebook sopramenzionata. “In questi due anni abbiamo supportato la vittima giuridicamente e psicologicamente – sottolinea Sara Medini, analista politica dell’associazione e punto di riferimento per le donne vittime di violenza -. Il supporto era particolarmente necessario perché l’accusato è una personalità politica che gode di grande potere, anche economico”. Aswat Nissa ha inizialmente espresso il proprio sostegno con alcune manifestazioni organizzate fuori dal parlamento (quando questo era ancora in funzione) con cori che rimarcavano il fatto che un colpevole di molestie sessuali non potesse legiferare. Poi, ovviamente, lo ha portato avanti durante i giorni delle udienze decisive, a cui si è arrivati dopo una lunga fase processuale.

Il motivo dell’attesa è presto detto: Makhlouf ha tentato di far valere il proprio potere e le sue conoscenze altolocate per ostacolare l’andamento delle indagini. Senza contare che è stato possibile velocizzare il processo solamente dopo che il 25 luglio il presidente della repubblica Kais Saied, tra le varie misure eccezionali prese, ha tolto l’immunità parlamentare. A questo va aggiunta la giustificazione bizzarra addotta da Makhlouf per la sua assenza alla prima udienza, indetta per il 28 ottobre. Makhlouf non si è presentato perché doveva accompagnare la madre malata in ospedale in quanto unico membro della famiglia provvisto di automobile. “La stessa associazione dei magistrati tunisina ha ammesso che alcuni magistrati hanno tentato di interferire con questo caso e che ci sono stati molti vizi procedurali – precisa Medini -. Su tutti, la durata spropositata della fase dell’interrogatorio: nove mesi, vale a dire una durata che solitamente raggiungono i casi penali più complicati, non i casi in cui tutto è chiaro e ci sono anche delle immagini a dimostrarlo”.

LA PARTECIPAZIONE DELLA POPOLAZIONE

Il giorno dell’udienza dieci attiviste (nove donne e un uomo) di Aswat Nissa si sono recate a Nabeul per urlare la propria rabbia contro Makhlouf e appoggiare la vittima dall’esterno del tribunale di prima istanza della città. Ma a parte qualche timido incoraggiamento lanciato da alcune donne che, a piedi o in macchina, passavano di fronte al tribunale di Nabeul, non c’è stato un coinvolgimento significativo della popolazione locale. Nonostante ciò, Medini ha notato una maggiore partecipazione della popolazione: “Abbiamo assistito a un’evoluzione in termini di mentalità e a un aumento della sensibilità delle persone nei confrinti di questo tema soprattutto dopo la promulgazione della legge 58 [dell’11 agosto 2017 sulla violenza contro le donne, NdR] e soprattutto sui social media, dove le persone commentano, condividono e sostengono la causa. Se ne parla sempre più anche sui media e un po’ ovunque, ma il lavoro da fare è ancora enorme”.

La partecipazione arriva anche dagli uomini, sempre presenti, in numero più o meno cospicuo, alle manifestazioni. “La battaglia per i diritti delle donne è una battaglia umana e universale, non esclusiva delle donne – ricorda Medini -. Dunque non possiamo far altro che rallegrarci nel vedere uomini femministi che sono coscienti dell’importanza dell’uguaglianza di genere”. Inoltre, attraverso il reclutamento di giovani volontari e volontarie, Aswat Nissa si impegna a sensibilizzare la popolazione sull’uguaglianza di genere e sui diritti universali di uomo e donna : “L’obiettivo è quello di sensibilizzare piccoli gruppi di persone che poi a loro volta potranno fare lo stesso con le proprie cerchie di familiari e amici”, afferma Medini.

I DATI

Il caso di Makhlouf è stato il più mediatico, ma non è chiaramente l’unico in tutto il paese. Recentemente Aswat Nissa ha inviato al Ministero di Giustizia una richiesta di accesso ai dati sui processi per molestie sessuali e femminicidio esaminati dai vari tribunali tunisini dopo l’entrata in vigore della legge 58. Nella risposta il Ministero ha declassificato il reato di molestie sessuali a un più generico “mudhayaqa” (letteralmente “qualcosa che arreca fastidio, che importuna”) e ha fornito una tabella in cui emerge che, tra il 2019 e il 2020, sono stati avviati 400 processi per “mudhayaqa” appunto e 2 per femminicidio. Le cifre sono difficilmente attendibili, motivo per cui si attende il rapporto dell’Osservatorio nazionale di lotta contro la violenza sulle donne che è in fase di redazione e dovrebbe essere pubblicato all’inizio del 2022.

Nel frattempo, la sentenza del caso Makhlouf ha dato speranza alle donne tunisine. “Sono sicura che questa sia stata solo la prima di tante condanne – conclude Medini -. Il fatto che una vittima abbia vinto contro un politico forte è di conforto per altre vittime che potranno trovare il coraggio di denunciare i loro aggressori”.

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