Zied ben Romdhane, fotografo: “L’importante è la quotidianità, non per forza andare a cercare cose lontane o che fanno tanto scalpore”.
Zied Ben Romdhane è un volto internazionale della fotografia tunisina. Fotoreporter originario di Djerba e cresciuto a El Kef, attualmente vive tra la Tunisia e Montreal
West of life (2018), “L’Ovest della vita”, è il primo libro di Zied Ben Romdhane, fotografo documentarista e fotoreporter originario di Djerba e cresciuto a El Kef (nel Nord-Ovest della Tunisia). Attualmente vive tra la Tunisia e Montreal e negli ultimi anni ha esposto i suoi lavori in svariate mostre come Trace (MUCEM, Marsiglia, 2015), Afrotopia biennale africana di fotografia (Bamako, Mali 2017) e An expression of absence (Bronx Documentary Center, NY, USA, 2022).
Fotografie in bianco e nero per renderle “più semplici possibile”
Per L’Altra Tunisia ci siamo diretti al cinema La Compagnia di Firenze, nell’ambito del Middle East Film Festival 2022, dove Ben Romdhane ha presentato West of Life insieme agli artisti libanesi Roï Saade e Tamara Abu Hany. Le fotografie, rigorosamente in bianco e nero per renderle “più semplici possibile”, coprono un periodo di tre anni e ci offrono uno spaccato di Gafsa, città dell’Ovest della Tunisia, situata in una regione semidesertica e poi diventata centro minerario per la produzione del fosfato. Ben Romdhane ci mostra un ambiente naturale spoglio, in parte plasmato dal fosfato, con una geografia umana e animale verace ed espressiva, e molti elementi di vita quotidiana. Come ha deciso di fotografare la Tunisia interna, “dall’anima rurale e ribelle”? “Le rivolte, nella storia tunisina – dice il fotografo – hanno sempre avuto inizio nelle regioni interne e le regioni costiere, più aperte all’influenze esterne e al commercio, se ne sono poi appropriate”.
Abbiamo deciso di scoprirne di più sulla genesi di questo progetto e del personale approccio di Ben Romdhane alla fotografia.
Come ha scoperto la passione per la fotografia? L’ha studiata o ha imparato da solo?
Ho imparato da solo. Io ho studiato commercio internazionale. Il primo contatto con la fotografia l’ho avuto nello studio di mio zio, faceva fototessere per le carte di identità e così via. Avevo circa 15 anni, ero al secondo anno di liceo. Più che altro stavo al banco, aiutavo con la vendita di rullini, pile, macchine fotografiche usa e getta e via dicendo, ma ho sempre desiderato provare a fare le foto. Purtroppo c’era troppo lavoro e non avevano tempo per insegnarmi. Quando sono andato all’università a Tunisi ho comprato una Reflex con 100 dt della prima borsa di studio. Per fortuna era una buona Reflex! Mi si è rotta dopo circa un anno. Ho frequentato per tre anni il club di fotografia al Tahar Haddad. All’epoca c’era ancora il rullino, sviluppavo da solo le mie foto e a fine anno facevo una mostra al club, lì discutevamo di fotografia. Dopo la laurea ho fatto vari lavoretti e infine ho trovato lavoro in una compagnia di assicurazioni dove sono stato solo nove mesi, perché quando mi hanno fatto il contratto me ne sono andato. In seguito ho conosciuto un tipo, tramite un’amica, che aveva bisogno di un fotografo commerciale in maniera continuativa e ho aperto il mio studio. Facevo flyer per il Magasin Général e materiale pubblicitario, ma in parallelo facevo foto artistiche.
Com’era allora, prima della Rivoluzione, il panorama artistico tunisino?
Difficilmente avrei potuto parlare di Gafsa, il clima era orribile. Mi ricordo che una volta stavo facendo delle foto in Avenue Bourguiba e mi ha fermato la polizia. Mi hanno chiesto cosa stessi facendo. Al massimo potevi fare cose sul folklore, oppure con molta discrezione. Mi piaceva la fotografia, ma non avevo idea di cosa fosse la fotografia documentaria o lo storytelling. Anche al club facevamo più discorsi tecnici che sul lato artistico o ideologico.
Come ha scoperto allora la fotografia documentaria?
Piano piano. Nel 2011 ho fatto per la prima volta un documentario sul campo profughi di Choucha. C’era la Rivoluzione e io non ero ancora un fotografo, ma andavo alle manifestazioni. E’ da quel momento che ho cominciato a fare foto documentarie. Dopo aver fatto un po’ di soldi con il lavoro commerciale, ho deciso di andare in Yemen, Egitto e Libia; lì ho cominciato a capire da solo, senza formazione specifica. Nel 2012 o 2013 c’è stato il World Press Photo in Tunisia e ci hanno fatto dei workshop sul fotogiornalismo e il foto documentario. Mi hanno aiutato a fare il primo reportage e a meglio comprendere la fotografia documentaria. Con loro ho fatto un progetto che si chiama “I bambini della luna”, sulla xeroderma pigmentosa.
Come è nata l’idea di fotografare Gafsa?
Appartiene a un’idea più grande, cioè quella di fotografare tutto l’interno della Tunisia, ma non avevo un’idea chiara. C’era tanta tensione a Gafsa ed i miei amici e io parlavamo molto di politica, quindi mi sono detto: perché non andare a vedere con i miei occhi cosa sta succedendo? Sono andato in India e in altri posti, ma nel mio Paese ci sono luoghi in cui non sono mai stato, che non ho mai fotografato. Quindi sono andato lì e ho cominciato a fotografare.
Quello che mi ha attirato nelle Sue foto sono le geometrie degli edifici, le case squadrate, la sabbia… mi hanno dato la sensazione di essere davvero in Tunisia, nella Tunisia interna.
Lo spero. Il fotografo ha sempre la sua percezione personale. Forse io e te abbiamo la stessa percezione, ecco perché. Questa è la Tunisia come la vedo io, poi ognuno la vede a suo modo, ma secondo me queste sono le cose che devono essere viste. Questo è il contenuto essenziale, qui ci sono le cose fondamentali. Poi si diversifica, ma questa è la base.
Durante la presentazione a Firenze ha parlato della divisione tra le regioni costiere e le regioni interne. Questa è un’idea che ha una dimensione politica per lei?
Sì, ha una dimensione politica, ma anche personale perché anche io sono diviso, sono mezzo del Sud Est e mezzo del Nord Ovest. Ho vissuto uno shock culturale quando mi sono trasferito nel Nord Ovest. Gli altri bambini mi vedevano come uno di Djerba: avaro, benestante, diverso, che non parla e non si comporta come loro e così via. Questa differenza esiste, però poi l’integrazione è facile quando si è bambini e ho cominciato veramente ad abbracciare la cultura del Nord Ovest. Anche nelle famiglie si vede la differenza. A Djerba sono conservatori, a El Kef bevono molto. El Kef è famosa per l’arte, Djerba per il lavoro. Da adolescente mi sono trovato in mezzo a queste due culture e la mia personalità risente di entrambe. Quando ho cominciato a fare foto mi sono interessato subito al Nord Ovest perché non se ne parla, è discriminato. Io amo le cose che non sono sotto i riflettori. Mi piace la tranquillità e cerco sempre di essere discreto. Quando fotografo una manifestazione per esempio non sono a mio agio. Ho anche provato la fotografia di guerra, ma non mi si addice. Mi interessano le cose alle quali gli altri non danno importanza.
Ma perché? Perché vuole darle lei importanza o perché le sente simili a lei?
Penso che l’importante sia la quotidianità, le cose che ci sono vicine. Non importa andare a cercare cose lontane o che fanno tanto scalpore. Forse la mia personalità è così. Anche il dolore e la violenza preferisco raccontarli in modo pacato, poetico, ma allo stesso tempo razionale.
Ho pensato che magari era andato a Gafsa anche per la questione ambientale.
Certo, ma non all’inizio, queste cose le scopri in seguito. All’inizio sono andato a Gabes proprio per la questione dell’inquinamento e da lì mi è venuta l’idea di Gafsa. Il progetto doveva chiamarsi “La via del fosfato”, da Gafsa al porto di Gabes. Esiste ancora questo progetto, ma è cambiato, mi sono concentrato di più sulla regione di Gafsa perchè lì è la base. Gafsa è ricca ed è particolare perché ci sono andate a vivere le persone per lavorare nelle miniere, tutta la sua composizione è particolare e ha stimolato la mia curiosità. Generalmente mi lascio trasportare dalla fotografia. Comincio con una piccola idea, poi vado sul posto e l’idea si sviluppa. Per esempio vado in un posto che mi piace, come Ain Draham, e poi lì scopro che c’è un problema di acqua, di dighe ecc. e così per Gafsa. Noi fotografi documentaristi raccontiamo una storia, l’impegno politico e sociale esistono, ma l’importante è come viene presentato il problema. Il 90% delle persone a Gafsa ha problemi per l’inquinamento, ma come se ne parla è la cosa più importante. Poi in che modo si lotta e gli strumenti artistici adottati possono essere diversi, l’approccio deve svilupparsi col tempo.
Come è stato accolto il suo lavoro in Tunisia? Ho visto che le esposizioni che ha fatto sono tutte all’estero.
Noi siamo poveri, quindi non biasimo la Tunisia. Non abbiamo molte gallerie d’arte, lo stato e il ministero della Cultura sono allo sbaraglio, nessuno può contare su di loro. Io non sono di una famiglia di artisti o di La Marsa. Mi sono integrato nei circoli artistici quando ho ottenuto un po’ di visibilità all’estero, funziona un po’ così.
Mi sembra però che la scena artistica tunisina sia abbastanza vivace e che si producano anche cose interessanti. Qual è il posto della fotografia nel panorama artistico tunisino?
Dopo la Rivoluzione ha acquisito più importanza e si è poi sviluppata per tre quattro anni, ma in seguito l’interesse è scemato. Prima per esempio venivano persone di agenzia giornalistiche e fotografiche straniere. Quando succedeva qualcosa assumevano personale e spendevano soldi, c’erano tante entità come il World Press Photos che dava soldi alla gente per fare progetti. Poi è finita la moda della Rivoluzione e addio.
Considera il suo lavoro di fotografo come impegno politico oppure no?
Sì. Non ho aspirazioni utopistiche di cambiare il mondo o la Tunisia, ma ci provo. Anche se non riesco a cambiare la politica, cambio un po’ lo sguardo della gente, così possono pensare “allora anche in Tunisia si può diventare fotografi”.
Come è stato accolto il Suo lavoro a Firenze? Era la prima volta che veniva in Italia?
È stato accolto bene, però è mancato un po’ di confronto con il pubblico perché era un festival di cinema e avevamo poco tempo, ma ci sono molte persone che si sono interessate. La prima volta che sono venuto in Italia sono stato in una piccola città per un festival tra associazioni tunisine e italiane. Non conosco molto l’Italia, so solo che ci sono molti tunisini lì, ma mi è piaciuta, soprattutto la gente. Gli italiani sono calorosi come noi, come tutti i popoli mediterranei.
A cosa sta lavorando ora?
A un progetto sul disagio giovanile. Nei quartieri popolari in Tunisia c’è una depressione spaventosa tra i ragazzi. Ho una teoria personale, ma non so se ha un fondamento scientifico. Mi sembra che il rapido progresso tecnologico, culturale e politico sia troppo aggressivo per noi esseri umani. Non riusciamo a convivere con questa complessità. Nella società di consumo si diventa più individualisti e si perdono le cose vere, come le relazioni sociali e la famiglia. Questo è già successo in Occidente, ma in Tunisia è avvenuto in modo brusco con la globalizzazione. Tra gli adolescenti c’è una situazione di disagio enorme. Ho deciso di lavorare su questo in modo artistico. Quando lavori in questo modo però tutto è amplificato, uno a 16 o 18 anni vede la situazione politica, il Paese che va verso il fallimento, che cosa deve fare? Il futuro è incerto e questo crea una frustrazione enorme, per non parlare dei problemi che uno ha in famiglia, a lavoro e così via.
Sito : https://www.ziedbenromdhane.net/
Instagram : https://www.instagram.com/ziedbromdhane/?hl=en
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