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La Tunisia che resiste, nonostante tutto

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Quasi 1.500 km in 15 giorni, 10 louage presi, una decina di taxi e un treno;  23 ore di viaggio su strada; 15 interviste raccolte. Queste ultime due settimane in Tunisia le ho trascorse così, soggiornando per tre giorni in ogni tappa del viaggio, tra Jendouba, Sidi Bouzid, Medenine e Kef, spostandomi con i mezzi pubblici, quelli presi quotidianamente dal popolo tunisino per spostarsi da una regione all’altra. Una scelta voluta: avrei potuto noleggiare un’auto, ma non avrebbe avuto senso. Perché per vivere appieno un Paese bisogna anche sperimentare sulla propria pelle la quotidianità – e i disagi – di chi lo abita….Un viaggio reso possibile anche alle donazioni di voi lettori, e che darà vita a tre dossier che potrete leggere nelle prossime settimane. Un viaggio lento, che vogliamo anticiparvi un po’ tramite una sorta di Diario di viaggio…..

Sul louage

Lunedì 23 gennaio: partenza per Jendouba

Da Hammamlif, dove sono ospitata da un’amica, prendo il taxi per arrivare alla sede del Cospe: lì ho appuntamento con Amina Benfadhl, che ho contattato prima della partenza per organizzare il lavoro sul campo. Avevo già scritto del progetto Faire, che si occupa delle donne sfruttate nell’ambito agricolo in Tunisia, ma queste donne voglio incontrarle di persona. Una breve chiacchierata e via, direzione stazione dei louage per Jendouba. I louage sono dei taxi collettivi, che collegano le diverse città tunisine: non hanno orari prestabiliti, si arriva in stazione, si cerca quello per la propria destinazione, e si aspetta che si riempia. Nove posti totali (compreso l’autista), un piccolo bagagliaio dietro per le valige e le borse dei passeggeri, che a vederlo sembra strettissimo, ma che pare la borsa di Mary Poppins talmente riescono a farci stare i vari bagagli a mo’ di Tetris. 

Sono circa 155 i chilometri che mi separano dalla mia destinazione, due ore di viaggio per 14,5 dinari; verso le 12.30 arrivo a Jendouba. Mi accoglie Hayet Taboui, referente Cospe per il progetto Faire presso l’associazione Rayhana. Mi accompagna alla sede dell’associazione, che non è molto distante dalla stazione: mi illustra le varie attività, è un’associazione al femminile che cerca di promuovere il ruolo della donna nella regione di Jendouba, in modo che le donne possano avere un ruolo trasformatore nella società, a partire da tematiche legate all’alimentazione e all’ambiente. La direttrice è Nacyb Allouchi. C’è anche una radio, la prima radio on line femminile comunitaria della regione. Dopo una prima infarinatura, mi accompagnano al mio alloggio. 

Vista di Jendouba dalla mia stanza

Non ci sono hotel a Jendouba, o meglio, l’unico hotel presente in città mi è stato caldamente sconsigliato, così tramite l’associazione mi hanno prenotato per tre giorni una stanza in un appartamento, a circa venti minuti a piedi dalla stazione dei louage. L’appartamento ha un grande ingresso, due camere da letto, ognuna con la sua chiave, un bagno e una cucina comune. Non c’è il riscaldamento – e questo costituirà un problema per tutto il viaggio -, in cucina ci sono accumulati dei materassi, nessuna pentola, niente di niente per poter cucinare. Al piano terra dell’immobile c’è un salone du the – ristorante: per oggi cenerò lì, i prossimi giorni cercherò di esplorare un po’ i dintorni. 

Un altro murales a Jendouba – photo credits Giada Frana

La sera non c’è niente da fare, e i pensieri prendono il sopravvento. Penso a come prima ero solita dover a ogni costo incastrare il tutto, cercare di raccogliere il più possibile per proporre, vendere alle varie testate e guadagnare per non andare del tutto in perdita. E invece a questo giro è un viaggio lento. Un viaggio in cui mi lascio guidare un po’ anche dal caso. Senza mille incastri, senza voler strafare. Un viaggio dove quel che porto a casa va bene. Un viaggio dove riassaporo un po’ quella che considero casa mia. E me la faccio entrare ancora nella pelle. Un viaggio dove riassaporo la lentezza del fare le cose. Un viaggio dove sto pensando a cosa significhi fare giornalismo oggi, e soprattutto quello che voglio fare con L’altra Tunisia. 

Martedì 24 gennaio: il Gruppo di raggruppamento agricolo 

Hayet mi viene a recuperare alle 10 del mattino: andiamo da Hosni Ghanney, presidente del Gda, un Gruppo di raggruppamento agricolo, che lavora con le donne e cerca di valorizzare i prodotti del territorio. L’associazione si trova a circa 8 km da Jendouba, in aperta campagna, ci impieghiamo mezz’oretta ad arrivare a destinazione, su una strada sterrata e un ponticello sopra un piccolo fiume da attraversare. Vedo una ragazzina, zaino in spalla, tornare a casa dopo la scuola, un pastore che sta portando al pascolo le sue pecore. Arriviamo a destinazione, Hosni mi parla dei vari progetti, tra cui l’ultimo inerente l’allenamento di polli che le agricoltrici possono fare a casa propria, vendendo poi i polli a un prezzo concordato è uguale per tutti. Un progetto che purtroppo dovrà essere leggermente ridimensionato a causa del costo del mangime per gli animali, che è triplicato. Ma a parte questo, le donne producono prodotti locali, come polvere di pomodoro secco, molokhya, chorba, che hanno ricevuto anche dei premi per la loro qualità eccellente. L’intervista si conclude con un pranzo condiviso proprio con i prodotti del territorio: olio d’oliva, ricotta, olive, mlewi, pane, Harissa, tutto squisito. 

Alcuni dei prodotti delle donne del Gda

Torniamo all’associazione Rayhana: li incontro Khouloud Salhi, giornalista a Radio Rayhana. Racconta la sua esperienza, di come spesso solo perché lei è una volontaria e non sia retribuita, alcune persone non la considerino una vera e propria giornalista, ma di come si senta tale e ami fare questo lavoro. Di come il giornalismo di prossimità e il raccontare il territorio sia importante. C’è tanta passione in lei, e tanta voglia di fare qualcosa per il luogo in cui vive. 

Ritorno all’alloggio a piedi, passando davanti a una scuola all’uscita dei vari studenti, con l’odore dei popcorn appena sfornati che aleggia nell’aria: li vende un signore con il suo carretto, non resisto al richiamo. Riposo un po’ e poi verso orario di cena esco, cammino sullo stradone principale in cerca di un locale alternativo, poco distante trovo una pasticceria – salone du the – restaurant e decido di testarlo. Quando entro, mi rendo conto che sono l’unica donna: c’è una partita di calcio in corso – quale non so, non seguendo questo sport -, mi siedo, dò un’occhiata al menù e opto per un makloub. Sento un vociare femminile: in un’altra stanza, un gruppo di ragazze sta festeggiando un compleanno. 

Venditore di popcorn a Jendouba – photo credits Giada Frana

Mercoledì 25 gennaio: dalle donne agricoltrici

Hayet mi viene a recuperare all’alloggio: questa mattina andremo a vedere le donne agricoltrici al lavoro, durante la raccolta delle olive. La macchina impiega un po’ di tempo a portarci a destinazione, poi i primi alberi di ulivo cominciano ad apparire all’orizzonte. Ma delle donne non c’è traccia: bisogna addentrarsi all’interno per incontrarle. Aspetto che sia Hayet a presentarmi, e a rompere il ghiaccio. Sono donne di età varia, che svolgono questo lavoro ormai da anni, e che con esso mandano avanti la famiglia. Stivali ai piedi, foulard colorati, tipici della regione, a fiori, che bloccano l’hijab durante il lavoro, guanti e vestiario per proteggersi dal freddo pungente. Alcune donne non vogliono essere fotografate: pensano che sia della tv tunisina: mi spiegano che una volta sono venuti ad intervistarle, ma il servizio poi è stato montato in un modo in cui non hanno riportato ciò che avevano detto. E quindi non hanno più fiducia (come dar loro torto?). Ma appurato che sono una giornalista straniera, l’atteggiamento cambia. “Fotografami e poi manda la foto al nostro Presidente, così vede in che condizioni lavoriamo” sottolinea una di loro. Si arrampicano sugli alberi, fanno cadere le olive, le raccolgono con i guanti per poi metterle nei sacchi di iuta. Lavorano dalle 7.00 del mattino alle 15.00 del pomeriggio, ma la loro giornata inizia spesso alle 4 del mattino, quando si alzano per preparare il cibo ai famigliari, per poi uscire ed attendere l’intermediario che le porterà ai campi. Grazie per essere venuta qui ad ascoltarci, è già qualcosa: nessuno viene a vedere la nostra situazione. Sono contenta che ci siano delle donne che pensano ad altre donne” mi dice Saida Mezni, “femme ressource” del progetto Faire.  E io ho gli occhi lucidi e la abbraccio. Tante emozioni in queste poche ore, e la promessa che ritornerò ancora da loro. Ho conosciuto donne con una forza e una dignità pazzesca, e un’energia coinvolgente. 

Una donna agricoltrice a Jendouba – photo credits Giada Frana

Torniamo alla sede di Rayhana, mi fanno assaggiare un panino con le acciughe, tipico del posto. Voglio vedere il centro della città, così mi incammino verso il mercato. In un negozio vedo delle borse di paglia rotonde, le compro, due piccole per le mie bimbe e una per me: un ricordo tangibile di questo soggiorno. Sono sfinita, fisicamente e mentalmente, vado in un salon du the vicino all’alloggio, “Salon du the jazz”, ordino un succo d’arancia da portar via, ma il ragazzo insiste, “siediti un attimo“. Poi mi dà una caramella, una gentilezza così, non dovuta, dicendomi di stare attenta e di aver cura di me. 

Giovedì 26 gennaio: verso Sidi Bouzid

Per la colazione ritorno al salone du the di ieri, ma c’è un altro cameriere. Faccio per pagare: non vuole niente: “Ti ho vista spesso da queste parti in questi giorni, va bene così”. Da Jendouba mi accompagnano al Kef, dove arriviamo dopo un’ora di viaggio, dal finestrino osservo distese di verde e vendita di benzina illegale. Dal Kef prendo un louage che mi porta a Sidi Bouzid, dopo due ore e mezza di strada. Era dal 2015 che non mettevo piede a Sidi Bouzid: con Simona Bonomo, fotografa, eravamo state al Complesso della gioventù, avevamo parlato con dei giovani rapper, con il direttore del centro, con gli studenti di musica, con il direttore della radio. Era un centro vivo, pieno di iniziative, che dava un po’ di speranza. Oggi mi dicono che quel centro non è più così, che ormai i giovani rapper sono tutti andati in Europa, che dal post Rivoluzione ci si è guadagnati la libertà sotto più punti di vista, ma che la vita è sempre più difficile. Eppure anche qui c’è una società civile che resiste. 

Ritratto di Mohamed Bouazizi, Sidi Bouzid, Photo credit Alice Passamonti

Dalla stazione del louage prendo un taxi. “Perché non accendi il contatore?” Chiedo al taxista. “Ma qui funziona così, si paga un tot a tratta” mi dice l’autista. Sono un po’ diffidente, ma pago ciò che mi chiede. E in effetti – mi spiegheranno poi – solo a Tunisi si usa il contatore: nelle altre zone si paga a posto o a tratta. Mi viene a prendere Marwa Heni, presidentessa dell’associazione Citess. Mi porta subito a Souk Jdid, dove l’associazione Yes We Can, nata nel 2020, sta facendo – grazie al coinvolgimento di Cospe – un lavoro con le donne agricoltrici. Incontro Mhania, femme ressource del progetto Faire di Cospe, anche lei un’energia unica. Venuta lì per essere intervistata dopo il lavoro nei campi, era talmente energica e sorridente, che era evidente il motivo per cui è davvero una risorsa preziosa. 

Mi accompagnano al mio alloggio, una residenza nuova che si trova fuori dalla città, vicino a una clinica e all’unico hotel della città. Ho un appartamento tutto per me: un soggiorno enorme, dove oltre al divano e alla tv sono stati piazzati due letti, e poi due camere da letto matrimoniali, il bagno e la cucina. Accendo la piccola stufa che mi hanno dato, e subito l’elettricità salta. “Il contatore è vecchio madame”, mi dice il portiere. Mi stacca la presa della caldaia: “o l’una o l’altra, finché non verranno a sistemare le cose”. Fa freddissimo, la cucina non ha manco una pentola per scaldare l’acqua e farmi un the. Esco per vedere se nelle vicinanze c’è qualcosa. Trovo una piccola bottega, compro qualcosa per la colazione, vedo due bambini, figli della proprietaria, sdraiati su un materasso che guardano i cartoni. Lei mi chiede qualcosa, ma non capisco subito, quindi si rende conto che non sono tunisina, e incuriosita comincia a chiedermi che ci faccio qui, se ho famiglia in Tunisia, insomma le solite domande di rito. Presa la mia piccola spesa cammino ancora, trovo un café e un piccolo ristorante popolare. Decido di andar là per le 19, arrivo alle 19.15 e lo trovo chiuso. Il locale vicino che fa mechoui ha finito tutto, carne e pesce. Niente, devo chiamare il delivery che mi ha lasciato Khawla, la receptionist. E intanto chiacchiero con il portiere, finché non arriva il ragazzo con il mio makloub. Mi racconta dei figli, della moglie, del lavoro, si raccomanda di chiamarlo se avessi bisogno di qualcosa, che lui fa il turno di notte. Mi fa vedere che si è portato un fornello elettrico per scaldare l’acqua e farsi il thé. Decido che se dovessi viaggiare ancora in inverno, sicuramente in valigia piazzerò anche un bollitore elettrico portatile.

Venerdì 27 gennaio: la società civile di Sidi Bouzid

La mattina è dedicata a diverse interviste a Cit’ESS “Pôle d’Appui à l’ESS / قطب الإقتصاد الإجتماعي التضامني “, una lunga chiacchierata con Marwa Heni, presidentessa dell’associazione, e poi con Mounir Khlifi e Kadri Hayet, che fanno parte dell’associazione Ladies First association جمعية النساء أولا  che a sede a Regueb.  Anche qui è la società civile che cerca di presentare delle alternative socio – economiche, nonostante il contesto non sia sempre facile e le difficoltà. Negli primi anni successivi al post rivoluzione, c’era molto entusiasmo, e anche voglia di cambiare il Paese. Ora siamo davanti a una crisi di identità nazionale, di cittadinanza: l’idea di lasciare la Tunisia si è propagata troppo”. E’ venerdì, si lavora solo metà giornata: ringrazio Marwa per avermi guidata in questi ultimi due giorni e ci salutiamo.

Incontro poi Ahmed, che non vede l’ora di parlare in italiano, dato che si è laureato proprio in questa materia, che insegna. Andiamo a pranzo in un ristorante popolare dove mi gusto un’ottima insalata mechouia con orata. E poi camminiamo tra le bancarelle del fripe, il mercato dell’usato, e di frutta e verdura: è giorno di mercato. Poi ci spostiamo in un café a chiacchierare un po’, assieme al suo amico Ahmed e ci raggiunge un suo amico rapper. “Scusate il ritardo, ma sapete com’è, mi fermano sempre per strada per le foto”, scherza. Capelli neri con un ciuffo che si sistema in continuazione, giacchetta nera di pelle e jeans strappati al ginocchio, Hamza Abdelhak in arte Bech2a racconta un po’ della sua esperienza musicale, e di come non sia semplice sfondare come rapper. I ragazzi mi accompagnano poi alla statua dedicata a Mohamed Bouazizi: “Manish msameh”, “Non perdonerò”: è la scritta che compare su di essa, assieme a una sua foto, incollata lì sopra. La statua – carretto si trova in Avenue Mohamed Bouazizi, nel centro di Sidi Bouzid, a qualche passo dalla posta, dove si trova un suo ritratto con la scritta “shahid ”, “martire”.

Al mercato di Sidi Bouzid – photo credits Giada Frana

Ritorno alla residenza. C’è di nuovo il portiere, lui fa il turno di sera e notte. “Mi raccomando oggi esci prima per la cena!” si assicura. E così alle 18.30 esco di qui, e mi incammino verso il ristorante popolare qui vicino. Niente da fare, sta chiudendo. Ritento al posto dove fanno mechoui. “Ah sei la ragazza di ieri? Stasera c’è la carne!”. Mi tagliano dei pezzi di carne da una coscia di agnello, me la grigliano al momento. Mi accomodo ai tavolini, mi portano un’insalata mechouia, del pane e una boga cidre. E poi arriva il mio agnello: mai mangiato così buono in Tunisia. 26 dinari il costo della cena, 20 dinari solo di carne. Mi chiedo davvero come possa una famiglia metterla in tavola con questi prezzi. Il portiere mi spiega che Sidi Bouzid è la numero uno in questo: qui si mangia l’agnello più buono di tutto il Paese. E mi offre un biscotto. 

Sabato 28 gennaio: da un cafè all’altro

Complice la stanchezza accumulata pre partenza, me la sono presa comoda. Talmente comoda che a mezzogiorno sento il campanello suonare ripetutamente: è la ragazza della reception che non vedendomi uscire presto, come le altre mattine, si è preoccupata ed è venuta a vedere che stessi bene. L’ho rassicurata e poi mi sono preparata per andare in centro. Vado in bagno: non esce l’acqua. Pazienza: io sono super organizzata e mi sono portata mille salviettine, per oggi va così. In effetti la residenza é nuova, ha solo tre mesi di vita, e stamattina dalle 8.30 sentivo trapani e altro. Al piano terra stanno costruendo un ristorante in modo che chi dorme qui possa anche mangiare senza doversi per forza spostare. 

Incontro di nuovo i due Ahmed in centro, dopo un the al Cafe Fabrica andiamo a mangiare in un  altro ristorante popolare. Si mangia in piedi: ojja con tonno e brik, che non gustavo da mesi. Poi ci incamminiamo verso un altro cafe, un po’ più chic, dove stiamo un po’ a chiacchierare. Non c’è altro da fare, se non camminare e andare da un café all’altro. Niente cinema, niente attività culturali. Sono le 17.00 e comincio ad essere un po’ stanca, pensando anche al viaggio che devo fare domani. Così ci incamminiamo verso la residenza, nonostante a piedi sia un po’ lontana, ma ho bisogno di risvegliare un po’ le gambe. Ahmed e il suo amico omonimo non vogliono che vada da sola e mi accompagnano. Passiamo davanti al Centro della gioventù che avevo visto nel 2015: è praticamente deserto. Solo nel campo di basket e di calcio ci sono dei giovani che si allenano. Il resto, il vuoto totale, a parte i gatti che mi seguono. 

Il campo da calcio al Centro della gioventù di Sidi Bouzid – photo credits Giada Frana

Continuiamo a camminare, ci fermiamo in un café per riempire la mia thermos di the caldo, e comprare un millefeuille per stasera. La strada sembra infinita, ma finalmente arriviamo a destinazione.  Salgo un attimo a riposarmi, e dopo un’ora esco di nuovo per cena, incamminandomi verso il centro. Trovo un piccolo ristorantino, il menu appeso al muro in arabo, per fortuna riesco ancora a leggerlo. Fanno chapati e mlewi. Prendo un mlewi con omelette e formaggio, “blech harr “, “senza piccante”, sottolineo al signore. “Che ci fai qui a Sidi Bouzid?” Mi chiede. Dico che sono qui da qualche giorno ma domani riparto, che sono qui per lavoro, che ho intervistato delle associazioni. Mi da il benvenuto, mi accomodo al tavolo, mi gusto il mio mlewi con una Fanta, che ha colore e gusto diverso dalla nostra, è molto più dolce. Mi dice che la vita è diventata difficile, che con 400 dinari al mese non si va da nessuna parte. Mi alzo e faccio per pagare: non vuole nulla. 

Sidi Bouzid è stato questo per me: l’accoglienza e la gentilezza delle persone che ho incrociato sul mio cammino. Che mi hanno coccolata come se fossi di famiglia (nessuno ha mai voluto pagassi qualcosa in questi giorni). Che si sono presi cura di me nonostante fosse la prima volta che mi incrociavano. “Qui siamo così” mi ha detto Houcine, il portiere. A chi mi chiede perché amo la Tunisia, questa è la risposta. 

Lo sportello per i biglietti del louage a Gabes – photo credits Giada Frana

Domenica 29 gennaio: direzione Medenine

Sveglia alle 7.00, esco dalla residenza alle 8.00 per prendere un taxi e andare alla stazione dei louage. Per arrivare a Medenine non c’è un collegamento diretto da Sidi Bouzid: bisogna arrivare a Gabes (circa 15 dinari). Partiamo verso le 8.30. Le strade sono belle, il conducente si allaccia la cintura quando vede che ci sono dei controlli.  Arrivati a Gabes altra fila al guichet per prendere  il biglietto per Medenine: 7,050 dinari per un viaggio di un’oretta. Io sonnecchio… Arrivo a Medenine alle 12.30, dopo 4 ore di viaggio. Un altro taxi e finalmente arrivo al mio alloggio: la maison d’hotes La Cuesta, dove sono stata nel 2019. Mi accoglie la proprietaria, Leila Gammar. Lei è un’ex professoressa, assieme al marito Houcine in pensione. Hanno tre figlie: una a Tunisi, una in Giappone e un’altra a Parigi. Fuori nel giardino hanno dato vita a un progetto di permacultura e Leila fa parte di un’associazione che organizza delle passeggiate nella regione del Dahar, tra Matmata e il sud di Tataouine. 

Incontro poi Abdellah Said: era venuto a studiare in Tunisia dal Ciad e ora è ormai da 30 anni che vive qui, con la moglie tunisina. Si occupa dei ragazzi disabili, ma non solo: è presidente dell’Associazione “I bambini della luna” e di una coalizione di associazioni umanitarie. I subsahariani – e anche i neri tunisini in generale – stanno soffrendo molto per il razzismo. Mi spiega che è un tema tabù, che se si solleva la questione viene detto che si vogliono creare problemi e che si esagera. Ma le storie che racconta le si sentono da anni ormai. Ovviamente non mi ha lasciato pagare il pranzo: “Oggi sei mia ospite”. Mi lascia andare a riposare un po’ e ci diamo appuntamento per domattina. 

La scritta I love Medenine – photo credits Giada Frana

Lunedì 30 gennaio: il progetto FreeFemmes

La mattina la trascorro all’atelier di cucito dove Rafika Zammouri, insegnante del Ministero degli affari Sociali, insegna alle giovani donne tunisine a cucire. Sono giovani dai 16 anni in su che hanno abbandonato gli studi, per poter aiutare economicamente la propria famiglia. Tutte sognano di poter aprire un loro progetto ed essere così indipendenti economicamente. Siamo in una regione conservatrice, dove i mariti se trovano un uomo che insegna alla propria moglie, non le dà il permesso di frequentare il corso, anche se è per il loro futuro. Qui Silvia Di Meo, antropologa, assieme a Rafika e ad altre donne subsahariane che frequentano la sartoria, ha dato vita al progetto FreeFemmes, un collettivo composto da donne che vivono a Medenine, nel sud della Tunisia e in altri luoghi del confine tunisino-libico. Sono donne tunisine e subsahariane, che producono creazioni artigianali contro le frontiere e il razzismo. Il ricavato della vendita di queste creazioni è destinato a finanziare il lavoro delle donne e sostenere il progetto.  Ne metterò qualcuna in valigia: le spedizioni verso l’Italia sono purtroppo complicate e l’ultima volta la posta ha perso tutto, mandando così in fumo il lavoro – e i possibili guadagni – di queste ragazze. 

L’atelier di cucito a Medenine – photo credits Giada Frana

Mi chiama Aminata, nome di fantasia. Originaria della Costa d’Avorio, lavorava in Algeria quando è stata presa con altre persone e buttata fuori dal Paese, nel deserto. Da lì tre anni d’inferno in Libia e poi la traversata del Mediterraneo, dove la guardia costiera tunisina li ha intercettati e portati in Tunisia. “Non sono dell’umore di raccontarti ciò che ho vissuto in questi anni: piangeremmo entrambe. Ma è stato tutto molto difficile. Vorrei solo potermi regolarizzare e lavorare, per poter inviare dei soldi ai miei figli, che sono rimasti al Paese. Ma non ho ancora i documenti, e se continua così, l’unica alternativa sarà prendere ancora la strada del mare”. E intanto noi continuiamo ad esternalizzare le frontiere. A lavarci le mani di queste persone, delle loro storie, di quello che hanno passato. A lasciare che il Mediterraneo continui ad essere un cimitero, invece di gettare ponti tra le due sponde. E purtroppo, quando tornerò in Italia, mi comunicheranno che Awa, una giovane donna ivoriana facente parte del progetto, è morta con il figlioletto di tre anni tentando la traversata del Mediterraneo. 

Martedì 31 gennaio: con i richiedenti asilo

Monsieur Abdellah alle 8 mi porta al jardin d’enfants, praticamente una sorta di asilo, dove i bambini dei richiedenti asilo vengono presi in carico per la mattinata, mentre i genitori lavorano qualche ora. Non esistono vacanze: i genitori fanno spesso lavori saltuari, giornalieri e quindi l’asilo deve essere aperto tutto l’anno. Poi siamo andati in un altro locale, sempre gestito dalla Coalition des Associations Humanitaires de Medenine, dove si svolge un altro atelier di sartoria. Lì c’erano anche degli uomini, tra cui Zakaria, che viene dalla Somalia, e che è arrivato qui con un braccio spezzato dalla Libia. C’era anche una giovane donna sudanese con il suo neonato di due mesi tra le braccia, avvolto in una coperta. Poco più in là il laboratorio di ricamo manuale, dove diverse giovani donne tunisine stavano facendo lezione. 

Una bambina della luna all’asilo a Medenine – photo credits Giada Frana

Non ho intervistato i richiedenti asilo. In questi giorni mi sto chiedendo quanto sia giusto scavare di nuovo nel loro dolore, quanto sia davvero utile “alla causa”. Mi confronto con Massimiliano, un collega. “Il problema è che non li consideriamo innanzitutto come persone”. E in effetti ha ragione, e non vale solo per loro. Siamo talmente concentrati sul raccogliere storie, che vediamo solo una parte della loro vita, quella che ci serve per il nostro lavoro. Li etichettiamo come rifugiati, e ci dimentichiamo dell’insieme.

Abdellah mi porta poi nel suo ufficio, dove incontro il presidente di un’associazione di non vedenti, che mi ha parlato delle difficoltà delle persone non vedenti in Tunisia e delle loro attività, e poi della situazione delle persone disabili in generale. Se ne parla poco, dei disabili in Tunisia eppure anche qui piano piano le cose stanno cambiando.  Il pomeriggio invece Leila mi accompagna alla sede dell’associazione Museaique di cui è cofondatrice, un’associazione culturale che cerca di promuovere attività teatrali, laboratori di pittura, passeggiate per conoscere il proprio territorio ma non solo. Terminata l’intervista, ho detto a Madame Hafidha Lamine, presidentessa dell’associazione, che il suo anello con la mano di Fatima era molto bello. Lo ha tolto e me lo ha regalato, “come ricordo di Medenine”. 

L’ingresso dell’associazione Museaique – photo credits Giada Frana

Mercoledì 1 febbraio: un’odissea per arrivare al Kef

Sono partita alle 9.15 da Medenine, ma al Kef non sono mai arrivata.  Medenine – Gabes (76 km circa, un’ora e mezza, 7 dinari di louage). Mi appisolo un po’ nel tragitto perché ho dormito poco, quando apro gli occhi il ragazzo accanto a me, Ridha, mi dice “dormito bene Madame?… vorrei trovare una moglie bella e calma come te” e mi racconta le sue peripezie amorose, invitandomi per un caffé. Arriviamo e poi da lì dico che devo andare a Kef quindi che forse devo andare a Sfax e cambiare. Il ragazzo allo sportello mi dice “No, devi andare a Kairouan e poi da lì cambi”. Non ne sono convinta, ma d’altra parte è il suo lavoro….

Arrivo a Gabes, pago il biglietto per Kairouan (circa 14 dt), partiamo verso le 11.30. Sono 220 km. Un signore, con gli occhi azzurrissimi, mi chiede se ho mai assaggiato i makroudh, ne ha comprato due scatole, ne apre una per farmelo assaggiare, anche se gli ho detto che so come sono e mi piacciono, e poi mi regala una scatola. Mi chiede dove devo andare, mi dice che sua sorella Dorsaf ha un bel negozio a Kairouan, perché non mi fermo lì invece di proseguire e non riparto la mattina successiva, sua sorella ha tante belle cose, vestiti ma non solo, c’è un signore americano che vive a Monastir che viene apposta con la moglie a comprare le cose. Da Medenine a Kairouan la Garde nationale ci avrà fermato almeno 4/5 volte tra controlli al bagagliaio e al passaporto. La ragazza che è con me quando il louage si ferma per una piccola pausa, va in bagno e si chiude dentro per fumare. Una donna che fuma in pubblico non è sempre benvista…. 

Stazione dei louage a Medenine

Arrivo a Kairouan alle 15.30, chiedo dei louage per il Kef: non ci sono. Mi dicono di andare a prendere il pullman. Vado alla stazione del pullman “Non ci sono bus per il Kef, solo uno al mattino presto e uno alle 14”. Non so se piangere o arrabbiarmi. Chiamo il proprietario della maison d’hotes, prova a informarsi anche lui, ma mi propone di andare a Tunisi e partire domattina, e spostare di un giorno il mio soggiorno. E così decido di fare, non ho alternative…. Sconsolata vado alla stazione dei louage e chiedo quello per Tunisi. Altri 15 dinari, 150 km. Per fortuna la mia amica Kyra mi può ospitare la sera nonostante l‘improvvisata. 

Arrivo alla stazione di Moncef Bey e mi metto alla ricerca di un taxi. Un ragazzo vede che sono stanca e affaticata. Iniziamo a parlare, si chiama Idriss, è nigeriano ed è a Sousse per studiare. È l’ora di punta, trovare un taxi è quasi impossibile, tutti con la luce verde (che significa occupato per un motivo ancora sconosciuto). Idriss ferma un taxi per me e mi aiuta a caricare la valigia. Arrivo ad Hammamlif alle 18.30, sfinita. Un imprevisto l’avevo messo in conto in questo viaggio e devo dire che fino a questo momento mi è andata di lusso….

Stazione dei treni a Tunisi – photo credits Giada Frana

Giovedì 2 febbraio: direzione Kef

Esco di casa prima delle 8.00, direzione stazione del treno per Tunisi. Hammamlif – Tunisi sono circa 40 minuti di treno (meno di un dinaro il costo del biglietto). Arrivo in stazione e vado al café appena lì fuori per prendere un direct (ancora mi confondo sui vari tipi di caffè), il barista canta e cerca di far sorridere i vari avventori della giornata. Cerco un taxi e mi porta a Bab Saadoun, dove finalmente troverò il louage per il Kef. Impiego circa due ore e mezza per arrivare a destinazione, giusto per l’ora di pranzo. Per l’alloggio, il proprietario – che mi riferisce la cifra massima da pagare al tassista – comunica al tassista la strada da fare. 

Arrivo a La maison d’hôtes Zitouna e mi accoglie Fatma, e la sua bellissima gatta bianca si infila nella mia stanza. Lascio le borse in camera ed esco per comprare qualcosa da mangiare, girovagando e quasi perdendomi tra le varie stradine. Trovo un piccolo locale dove fanno mlewi, lo prendo e continuo a passeggiare, lasciandomi guidare dal caso e fotografando qua e là. Poco dopo si avvicina una signora, un po’ circospetta: “Perché fotografi tutto?”. Le spiego che è tutto nuovo per me e mi piace fotografare la vita quotidiana. Mi dice che lei prepara dei dolci in casa e mi dà il suo contatto…. 

Rovine romane al Kef – photo credits Giada Frana

Venerdì 3 febbraio: tra archeologia e un club di lettura

Per tutta la giornata ho avuto una guida d’eccezione, Cherine Cherni, professoressa di francese e con un master sul dialogo interreligioso. Mi ha raccontato della sua città, degli anni difficili con i salafiti, della morte di suo fratello, che era della guardia nazionale, in ottobre 2013 nella regione di Sidi Bouzid per mano dei terroristi. Mi ha guidato nella vecchia Medina, tre le rovine archeologiche romane (che peccato che alcune siano abbandonate e non valorizzate!) e nella Kasbah. Sono rimasta affascinata da così tanta bellezza, da questo luogo pieno di fascino e di storia, ma che lo stesso Stato tunisino non valorizza abbastanza. E come sempre, ho trovato tanta energia femminile.

Ho scoperto il progetto les graines mobiles di Chaima Arbi, che vende vasi e piante di ogni tipo ma non solo: organizza dei laboratori per bambini per fare loro conoscere i vari semi e le piante locali. Lì accanto il piccolo negozio Ô livre di Amel Mouna, che vende libri usati improntati principalmente sul patrimonio del territorio. E poi nella Medina Klimi Keffois un’artigiana che tesse meravigliosi tappeti. Il pomeriggio ho incontrato un gruppo di donne, tutte musulmane a parte una, e tutte tunisine a parte una francese e un’algerina, che hanno conosciuto le soeurs blanches che erano al Kef e che facevano parte del club di lettura creato da loro. Le suore ora non ci sono più ma vivono nei loro ricordi, erano amate da tutti. Il club di lettura era un modo per fare amicizia e creare legami: queste donne poi hanno viaggiato assieme alla scoperta della Tunisia e sono andare anche in Sicilia e a Roma, dove hanno incontrato il Papa. Si parla tanto della Goulette e di Djerba come di luoghi di dialogo interreligioso ma il Kef non è da meno! Un luogo che merita una visita e meriterebbe di essere valorizzato di più. 

Chaima Arbi nel suo negozio Les graines Mobiles – photo credits Giada Frana

In queste due settimane, ho trovato una Tunisia che resiste, nonostante la situazione economica e sociale non sia delle più favorevoli. Ho trovato come sempre un popolo ospitale, accogliente e generoso. E questa resilienza è portata avanti soprattutto dalle giovani donne…. Certo, le facce della medaglia sono due: dall’altra parte c’è sempre chi ha voglia di emigrare, chi vede l’Europa come la soluzione per migliorare le proprie condizioni. Per questo  – e non smetterò di dirlo – sarebbe importante smetterla con un approccio securitario, dando soldi e motovedette in cambio dell’esternalizzazione delle frontiere, puntando invece a un vero dialogo tra le due sponde, favorendo una libera circolazione non solo delle merci, ma anche delle persone, affinché questi giovani abbiano la possibilità di viaggiare e conoscere altri Paesi.

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