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Hayet Taboui, attivista: “Potevo partire, ma voglio restare qui e valorizzare la nostra regione”

Attivista ambientale, presidentessa dell’associazione Sidi Bou Zitoun, volontaria dell’associazione Rayhana, coordinatrice regionale per Cospe del progetto Faire, nonostante abbia avuto diverse occasioni per cambiare lavoro e zona, ha deciso di restare e mettersi in gioco in prima persona

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Il suo nome, Hayet, significa “la vita”: lo ha scelto per lei la nonna, con l’augurio  che potesse vivere, sapere vivere e seminare la vita, così come si semina il grano. Hayet Taboui, 46 anni, abita a Jendouba, una regione a vocazione agricola nel nord ovest della Tunisia. Attivista ambientale,  presidentessa dell’associazione Sidi Bou Zitoun, volontaria dell’associazione Rayhana, coordinatrice regionale per Cospe del progetto Faire, nonostante abbia avuto diverse occasioni per cambiare lavoro e zona, ha deciso di restare e mettersi in gioco in prima persona. “Mia sorella mi dice sempre che non capisce: ho avuto mille occasioni per migliorare la mia situazione, ma voglio rimanere. Nonostante tutto, qui sto meglio e voglio restare fedele a ciò che i miei nonni mi hanno insegnato, trasmettendolo a mia volta alle nuove generazioni. Ciascuno di noi può vivere bene nel suo Paese. Ho viaggiato molto, visitato altri posti, ma la mia missione è qui, finché avrò vita”. 

I suoi nonni sono agricoltori: da qui il suo amore per la natura e per una vita che ne segua i suoi ritmi. “Abitano a 4 km dalla frontiera algerina. Non ho mai pensato che ci siano delle frontiere: c’è la stessa cultura, la stessa civilizzazione. Ho sempre viaggiato con mio nonno in Algeria sul dorso di un cavallo, non siamo mai passati dalla dogana: per lui è stata la colonizzazione a creare le frontiere. Sono sempre rimasta impressionata da ciò che fanno i miei nonni, dal rispetto che hanno verso tutti gli esseri viventi: ogni albero ha una sua storia, ogni animale un nome, rispettano la vita in tutti i suoi risvolti. Quando rientravo dai miei genitori era come se mi sentissi in punizione: in città c’era un altro modo di vivere, mentre in campagna c’è la calma, ci sono gli animali, le storie di mia nonna, il cibo buono e così via. Inoltre mia nonna paterna è una donna berbera: ci ha lasciato un anno fa a 118 anni, non ha mai parlato in arabo, ma sempre in amazigh”.

Campi a Jendouba – photo credits Giada Frana

Archeologia, ambiente e diritti delle donne

Gli altri miei nonni abitano vicino a Chemtou, un sito archeologico numide. Questo ha influenzato il mio percorso, chiedevo sempre: questi monumenti sono molto grandi, chi li ha costruiti? Come sono stati mantenuti per secoli e secoli? Per questo motivo ho fatto il mio dottorato in archeologia su di esso, lasciando l’agricoltura e l’ambiente come hobby. Nonostante abiti in una regione conservatrice, nella mia famiglia non c’è mai stata davvero una differenza tra un uomo e una donna, il genere non esisteva, tutti avevamo gli stessi diritti. Al contrario, vedevo che era mia nonna a prendere le decisioni. Sono andata a Tunisi per studiare all’università Storia, volevo specializzarmi in archeologia, ma non ho potuto farlo in Tunisia, sono dovuta andare altrove. Nel frattempo nella mia vita ci sono stati diversi cambiamenti: ho perso mio padre, mio nonno, vedevo lo stile di vita che cambiava, soprattutto in montagna.

E così con qualche amico abbiamo deciso di creare un’associazione per la protezione dell’ambiente e per la promozione delle tradizioni culturali, materiali ed immateriali della regione. Non era possibile prima della rivoluzione: con l’ancien regime era quasi vietato creare delle associazioni, quindi abbiamo lavorato nell’informale, attraverso piccoli laboratori, azioni ambientali, uscite e passeggiate sul territorio. Nel frattempo mi sono resa conto che avevo bisogno di studiare ancora e così mi sono avvicinata  alla botanica: nella nostra regione ci sono 700 specie di piante. Con l’arrivo della Rivoluzione mi sono chiesta che nome potessi dare alla mia associazione: ho scelto Sidi Bou Zitoun, l’albero santo, un patrimonio nazionale, che si trova a Ghardimaou. Ha più di 2900 anni: quest’albero per mia nonna era un rifugio: se ero malata mi portava là, se dovevo superare un esame, dovevo pregare  ai suoi piedi. Lo chiamiamo il marabut delle donne, poiché solo quest’ultime si recano là. 

L’orto messo in piedi dall’associazione Sidi Bou Zitoun – foto dalla loro pagina Facebook

Ecoturismo e valorizzazione del territorio

L’associazione è stata il mio punto di partenza professionale: mi sono ritrovata in una struttura, con attorno delle persone che potevano aiutarmi, su cui poter contare. Abbiamo fatto davvero molto in questi anni. Ora lavoriamo nel nord ovest della Tunisia: non solo Jendouba, ma anche Beja, Kef, Siliana. Abbiamo quattro uffici, abbiamo creato dei JIAC, dei Centri di formazione ed azione nei 4 governatorati, operiamo nei parchi nazionali e nelle riserve naturali, lavorando con la popolazione locale limitrofa a questi ultimi: crediamo che siano loro i protettori di questa ricchezza. Abbiamo lavorato sull’inclusione economica, soprattutto delle donne pastori, con il loro savoir faire; abbiamo fatto una mappatura dei prodotti locali; abbiamo creato la Boutique Natura al centro del Parco nazionale El Feija che lavora anche attualmente, con dei prodotti di qualità del territorio. Abbiamo iniziato i mercati territoriali, i mercati – campo, dove si vendono i prodotti locali e si possono fare passeggiate o scoprire la natura, fatto rete tra produttrici e produttori dei quattro governatorati. Abbiamo creato dei giardini comunitari, di salvaguardia delle semenze locali, delle buone pratiche agricole. 

Lavoriamo anche sul versante dell’ecoturismo: sulla promozione, sull’identificazione dei percorsi, per esempio ci sono circuiti equestri, pedestri, nei parchi nazionali e nelle riserve naturali. Prima lavoravamo con un tour operator, ma in Tunisia lavorano soprattutto con la massa e noi non vogliamo. Ci sono circuiti fatti su una giornata, per 3/4 giorni, ci sono anche circuiti dalla tavola di Giugurta al Kef, fino alle basiliche di Tabarka. Abbiamo identificato dove alloggiare, i mezzi di trasporto, la gastronomia e la guida. Ogni week end i membri dell’associazione si recano nel parco per sensibilizzare i visitatori: un parco nazionale con 5 mila persone tutte assieme, con musica, rumore, i rifiuti. C’è molto lavoro da fare anche in questo.

Non potremmo gestire tutto questo se non fossimo in tanti e se non amassimo ciò che facciamo: siamo 300 aderenti, mentre i beneficiari nel 2022 sono stati 2.390, tra bambini, giovani, donne e uomini. Amiamo molto lavorare in rete: un proverbio dice che una mano non applaudisce da sola, bisogna avere più mani. Personalmente conto molto sulle mie colleghe e sulle persone che sono attorno a me, sono la presidentessa dell’associazione, ma cerco sempre di lasciare il mio posto ai giovani; sono aperta a qualsiasi iniziativa che possa dare un valore aggiunto al percorso dell’associazione. 

Hayet Taboui nei campi di ulivi assieme a una lavoratrice agricola a Jendouba – photo credits Giada Frana

Il lavoro con le donne agricoltrici 

Per quanto riguarda invece l’associazione Rayhana, lavorare per il progetto Faire è stata una bella esperienza, ed ha toccato una problematica che mi ha riguardato specificatamente. Una decina di anni fa non si trovavano donne che lavoravano la terra, a meno che fosse di loro proprietà, c’erano gli uomini, ma ora tutto è cambiato: volevo capire perché. Faire mi ha dato l’occasione di avvicinarmi a queste donne lavoratrici agricole, di scoprire questo nostro mondo. Mi sono detta: come donna, come attivista, non si può arrivare ad un ambiente sano “con delle mani sporche”, bisogna cercare delle soluzioni. Ora gli agricoltori non sono più quelli della generazione di mio nonno o di mio padre: sono degli investitori; significa che io affitto la mia terra a un professionista e lui investe nel terreno, ma non si preoccupa dell’utilizzo dei pesticidi, della manodopera, cerca solo i benefici e poi dopo qualche anno lascerà e ne verrà un altro. Per capire tutto questo devi parlare con le amministrazioni locali, con la gente, con gli agricoltori, porre domande. Arrivi a un punto in cui ti dici: ok, almeno so di che si tratta, ho i mezzi con i quali posso reagire. 

Senza queste donne non funziona nulla: fortunatamente abbiamo sempre bisogno di esse per lavorare. Bisogna sensibilizzarle, far capire che è necessario che si entri in azione sin da subito per avere un futuro migliore per loro stesse, per i loro figli e le donne future. Non è semplice, ma sono ottimista: vedo dei cambiamenti in atto. Vorrei che le donne arrivassero a punto in cui siano loro a prendere le decisioni sulla loro vita e sul loro lavoro. 

Hayet Taboui e Saida Mezni, femme ressource del progetto Faire – photo credits Giada Frana

Le difficoltà incontrate e le soddisfazioni

A volte come attivista ho avuto qualche molestia, avendo toccato dei temi tabù. Non cerco di fare entrare i miei temi con la forza, ma di trovare il modo giusto, il mezzo più semplice e tranquillo. Qui siamo in un territorio isolato, con una mentalità chiusa nella maggior parte dei casi, ma fortunatamente ci sono sempre dei cambiamenti, dei buoni risultati. Non siamo soli: siamo un gruppo, è la società civile che ti dà la forza. Siamo coscienti del nostro ruolo e che il lavoro comunitario dipende da tutti noi. Ognuno cerca di cambiare qualcosa nella sua regione, e ciò diventa sempre più grande. Dall’altra parte sono soddisfatta quando vedo che siamo riusciti a passare un messaggio, o quando vado a visitare le donne lavoratrici agricole e vedo la donna che parla guardandoti negli occhi, quando prendo un telefono e chiedo aiuto e tutti mi rispondono. Mi trovo in una rete forte, malgrado i pochi mezzi che abbiamo”.

© Riproduzione riservata 

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