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Rosita Ferrato: in Tunisia ho il lavoro, l’amore in tante forme, qui è casa.

Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice e fotografa torinese, autrice del recente libro “Tunisi – la città nascosta” ripercorre come Tunisi sia diventata, dalla città in cui soggiornava saltuariamente, alla città in cui ora vive stabilmente da ormai più di un anno. Complice la pandemia, ma non solo.

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La testimonianza in prima persona di Rosita Ferrato, autrice del libro “Tunisi la città nascosta”, che ripercorre l’ultimo anno e mezzo trascorso, tra Tunisi, Italia, Francia, con la pandemia in corso, tanti dubbi e paure e poi la decisione finale.

6 marzo. Tunisi. Mi sveglio presto, devo prendere l’aereo. È uno di quei momenti insopportabili a cui periodicamente mi sottopongo. Tunisi Milano, ogni volta partire è uno strazio. Arrivata in aeroporto, sempre, vengo presa da una paura irrazionale: quella di – per qualche motivo, chissà quale – non poter tornare più. Ogni volta ho la tentazione, la voglia irresistibile di rimanere, ma poi il senso del dovere, la famiglia… e allora con uno sforzo immane torno in Italia. Oggi però l’atmosfera è anomala: alle 6 del mattino, sono ancora nel letto della casa della Medina, mia madre mi manda un messaggio con uno strano documento, un Dpcm, se non ricordo male, o qualcosa di mai visto, che prospettava una situazione critica. Un virus, il virus. In Tunisia già se ne parlava, ma senza prendere il tutto troppo sul serio, e qualcuno rideva dicendo di temere più un italiano raffreddato che una pistola puntata. Mia madre aggiunge un suo commento: quando rientri fai attenzione. La tentazione mi si insinua di nuovo: restare, potrei restare. E non presentarmi al gate, all’ultimo così… no, impensabile. Mi vesto, mi preparo.

Sono nella saletta vip dell’aeroporto. Odio volare. Odio lasciare questa casa, i gatti, gli affetti. Guardo il biglietto: 6 marzo 2020. Ormai sono qua, che faccio? Scappo?

Ascolto le news. La curiosità prevale sul resto. Sono una giornalista, sento che qualcosa di epocale sta per succedere. Qualcosa di mai visto, e voglio esserci. Decollo. Atterro. Arrivo a Malpensa. Trovo sale e gate deserti. Nessun passeggero in partenza, pochi che arrivano. Dal caos gioioso del nord Africa sbarco in un film di fantascienza. Spazi totalmente vuoti e personale protetto da tute bianche, scafandri anti virus come tanti ne avremmo visti in televisione. Ma ora è tutto inedito; osservo meravigliata. Il conducente del pullmino che mi porta alla macchina, mascherato, mi aggiorna sulla situazione. La gente inizia a essere spaventata, non si capisce cosa succede, cosa bisogna fare. A me sembra un’esagerazione, anche a lui.

Arrivo a casa a Torino. È venerdì. Chiamo la mia amica Nadia. Ci mettiamo d’accordo per un lunedì di shopping sfrenato, come nostro solito, come se fosse tutto normale. Ma non lo è. Sbrigo alcune incombenze, disfo le valigie, faccio un giro. Troppa poca gente. Accendo la televisione. Gli annunci del premier Conte. Zone rosse, cosa significa, cosa succede? Domenica 8 marzo, chiusura della Lombardia. Fuga in massa verso il sud alla stazione di Milano. Il caos. Un “si salvi chi può” nella notte e nel primo mattino, dopo il decreto di emergenza. La gente sciama verso case al mare, al sud, verso la famiglia. “Torniamo giù, abbiamo paura”. Seguo su Sky le notizie fino a tarda notte.

Lunedì 9 marzo. Nadia arriva, ci abbracciamo. Usciamo. Incentro città il clima è surreale. Torino è irriconoscibile, questo è il minimo che si possa dire: da Zara non si può accedere ai camerini in due, le commesse sono stressate, la mia amica è costretta a consigliarmi da lontano; nel negozio di occhiali non si possono toccare i prodotti se non dopo una sanificazione continua; in altri negozi è vietato toccare i vestiti. Nessun divertimento. Al bar, ci impongono di stare lontani uno dall’altro. È uno stress a cui non sono abituata. Mi spazientisco. Torniamo a casa. Guardo il telefono. Mi accorgo che mia madre mi ha nel frattempo cercata con insistenza. La richiamo. Avevo visto girare messaggi allarmistici in rete, ma non vi avevo dato molto peso. Mia madre è spaventata ma molto ferma: “Rosita scappa. Ho sentito il collega di papà, il primario, mi ha detto che la situazione nel suo ospedale è gravissima. Noi domani partiamo. Vai via anche tu”. “Ma ho degli appuntamenti oggi pomeriggio”, obietto. “Molla tutto, questo è più importante”.

Tutto succede in mezz’ora. Nadia mi aiuta. Ha un grande senso pratico e gusto. Mette tutto quello di più utile e glam in una valigia grande, che sta giusta giusta nel baule della mia macchina sportiva. Prendo il computer, libri di tunisino, dei romanzi, i trucchi, qualche bijoux. Abbiamo dimenticato qualcosa? Calze, mutande, un paio di capi più frivoli, non si sa mai. L’adrenalina è a mille, ma sono lucida. Confesso di divertirmi persino. Scappo in Francia, nella casa di famiglia; non c’è spazio per ragionare, l’orologio corre e il rischio di rimanere imprigionati è tanto. Sì, perchè nel frattempo hanno annunciato la chiusura dei confini. L’Italia che chiude, c’è dell’inaudito. E se poi mi bloccano alla frontiera? Devo tornare indietro. E se poi e se poi. Non c’è tempo per pensare, tanto vale muoversi. Abbraccio la mia amica, guardo la mia casa. Mettiamo tutto in auto e parto. “Se butta male, raggiungimi”, le dico.

Corro. L’autostrada è deserta. Alla radio trasmettono notizie inquietanti, ma sulla strada non c’è nessun controllo. Corro eccitata, preoccupata, mi sento un personaggio da film: Mata Hari, Cleopatra. Credo che queste situazioni facciano emergere la vera natura delle persone, e io evidentemente ho un cotè avventuriero molto utile in casi di emergenza. Arrivo alla frontiera di Ventimiglia. Trattengo il respiro. Rallento. In strada non c’è nessun veicolo. Nessun poliziotto. Né da una parte né dall’altra. Passo. Sono al sicuro.

Entro a Nizza. Trovo un mondo diverso. Trovo la gioia di vivere, il quotidiano, la spensieratezza, la luce della costa Azzurra, le folle. Durerà una settimana. Il 16 marzo Macron annuncia con un discorso alla nazione il confinement di almeno 15 giorni, sottolineando: “Siamo in guerra”. In quel momento, davanti alla televisione, ho un brivido di paura. Sono da sola. In una casa magnifica, ma lontano dalla famiglia, lontano dai miei affetti, lontana da Tunisi.

Nizza. Photo credits Rosita Ferrato

A Nizza mi organizzo. Ci vuole dello sport on line, lunghissime passeggiate all’aperto (che mai avevo fatto nella vita), un po’ di vita di relazione. “On va acheter le pain”, la vicina va a comprare il pane 3 o 4 volte al giorno. Io approfitto della posizione favorevole dell’alloggio, sulla collina, per scoprire percorsi boschivi e strade alternative di chilometri. Cerco di tenere la testa salda, socializzando in una città che non è la mia, ma che ha una dolcezza di clima e di anima che rende un periodo simile persino gradevole. Però mi sento in gabbia: e non tanto per la situazione che ovviamente non concilia, ma per cosa e chi ho lasciato. Il mio cuore è in nord Africa: gli amici, le persone care, il gatto (a cui non posso spiegare perchè non sono lì con lui, anche se per fortuna ha chi se ne prende cura).

Passano 3 mesi con giorni tutti uguali, intervallati dai discorsi alla nazione. A giugno finalmente riaprono i confini. Da Nizza torno in Italia, poi rientro in Francia, e quando finalmente è consentito spostarsi, faccio un ennesimo giro di valigie e torno in Tunisia. Ritrovo la mia vita. La vista dal terrazzo, l’odore dell’aria, gli occhi della gente. Tunisi: il posto dove temevo di non riuscire a tornare, e forse quella paura aveva un suo fondamento, dopo tutto. Giuro a me stessa che un altro 6 marzo non ci sarebbe mai più stato: quel giorno era giusto così, ma la prossima volta non me ne sarei andata.

Uomo con chechia nella medina di Tunisi - Photo by Chermiti Mohamed on Unsplash

Tunisi

Luglio 2020. Ho il biglietto di ritorno Tunisi Nizza per il 3 agosto. Il mondo è ormai un’incognita e dall’estero la famiglia è inquieta. Ogni giorno mio fratello mi chiede: “Ma ci sono voli, vero? Va be’, tra pochi giorni torni, se nel frattempo qualcosa va storto hai il volo prenotato”. Comprendo questa ansia da parte dei miei di sapermi lontana. Però qui si vive bene, non ci sono particolari stress nè restrizioni, un lusso di questi tempi. E io non ho nessuna fretta. Come per magia, il destino interviene e mi guida: ogni volta che la data della partenza si avvicina c’è qualche novità. Il giorno prima del ritorno, la Tunisia impone l’obbligo del tampone per chi entra. Lo interpreto come un segno che devo rimanere. Rimando la data di partenza. Poi, e sempre a ridosso della mia (successiva) partenza, introducono dei controlli tra Italia e Francia. Rimando di nuovo.

Ed è così che inizia l’allegro pellegrinaggio mensile (e poi trimestrale) a TunisAir. Le corse contro il tempo all’ufficio della compagnia di bandiera, la paura di non poter cambiare la data del biglietto all’ultimo così, la sensazione di leggerezza all’uscita dall’ufficio, e un bel giro da Zara per festeggiare il cambio, avvenuto con successo e senza penalità. Questo succede sei o sette volte, con spostamenti sempre più lunghi. Divento una barzelletta, per gli amici e per gli impiegati della compagnia di bandiera. “Aslema Madame”, ormai mi conoscono. Non mi vergogno neanche più, tanto sono contenta di poter restare. Ho il cambio valido per un anno: nel luglio 2021 deciderò il da farsi. Vivo il tutto come un paradosso, l’opportunità insperata di vivere qui senza alibi, potendo rispondere a chiunque mi chieda di rientrare: “Eh, purtroppo non ci si può spostare, dommage!”e sorrido.

Epilogo

Settembre 2021. Sono a Tunisi da più di un anno. Il biglietto aereo è ormai scaduto, e io non mi sono più mossa. Ho vissuto qualche confinement, qualche brivido, qualche imprevisto. Ma qui, almeno per come la vivo io, è tutto più dolce. I tunisini hanno un altro senso della vita e della morte, si sta insieme e si è fondamentalmente tranquilli. Mi manca la mia famiglia, ovviamente, ma una sua parte è qui. Ho ottenuto la residenza, mi sono creata un vero quotidiano, ho persino un alloggio al mare. Sono pienamente felice. Qui ho il lavoro, qui ho l’amore in tante forme, qui è casa.Ti manca l’Italia?” mi chiedono in tanti. “No”. Mi mancano le persone, certo, ma non vorrei essere in nessun altro posto al mondo.

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