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Matabbia: “Bisogna salvaguardare il patrimonio italiano in Tunisia”

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E’ stato Luca Quattrocchi, dell’Università di Siena, ad aprire i lavori della seconda edizione di Matabbia, l’evento dedicato ai Siciliani di Tunisia tra architettura, stampa ed arte. L’evento, promosso da diverse realtà tra cui Il Corriere di Tunisi, l’Istituto italiano di Cultura di Tunisi, la Società Dante Alighieri, la Banca Marsalese della Memoria, il Laboratorio d’Archeologia e di Architettura Magrebina, la Biblioteca nazionale di Tunisia, Beit el Hikma, si è svolto dal 29 settembre al 1 ottobre a Tunisi. Partendo dalla sua esperienza personale – Quattrocchi è giunto in Tunisia trent’anni fa con una borsa di studio per studiare l’Art Nouveau – ha guidato i presenti alla scoperta  dell’architettura italiana sotto il Protettorato francese. Quello che Quattrocchi certamente non pensava di trovare, erano i nomi di imprenditori e committenti italiani, già dalle prime ricerche effettuate. Ma lavorando sul campo, si è accorto che accanto all’Art Nouveau c’era un’architettura più semplice, più artigianale, più popolare, un liberty di gusto siciliano. Da lì decide di ampliare la sua ricerca dal Protettorato fino alla fine della guerra. 

Trattandosi di un patrimonio mai indagato – spiega –  il primo passo è stata la ricerca sul campo: percorrere le vie, le zone di edificazione di questi decenni per censire. L’indagine è stata fatta a tappeto su tutta la ville europeenne, dal centro, verso il lago, attorno alla stazione”. Negli anni Venti e Trenta, in Tunisia vi è un boom edilizio senza precedenti,  che segna l’espansione della città. “Solo a Tunisi ho censito 600 edifici. Erano gli anni della febbre edilizia: la media annua era di 400 nuove abitazioni, un numero che negli anni Trenta aumenta ancora”. 

Una ricerca non sempre facile da effettuare, soprattutto sotto l’ex presidente Ben Ali: ai tempi fotografare un edificio che non aveva valore era qualcosa di sospetto: “Sono stato arrestato diverse volte, due a Tunisi, una a Bizerte, perché non capivano cosa stessi fotografando. Il poliziotto pensava che fotografassi gli edifici perché c’era qualche ufficio amministrativo o taxi phone. Non potevo andare avanti così, chiedere all’ambasciata italiana che intervenisse, ogni volta, inoltre all’epoca non c’erano i cellulari. Ho dovuto farmi fare un permesso per fotografare da parte di un dirigente del Ministero della propaganda e dei rapporti con l’estero, dipendente dal temutissimo ministero degli Interni. Alla fine grazie all’intervento dell’ambasciata ho avuto questa autorizzazione a fotografare”.

Anche consultare gli archivi del comune di Tunisi non è stato semplice, poiché non erano aperti agli studiosi: “Ho potuto poi consultare i dossier con i piani dei vari edifici, planimetrie che non sono complete, spesso carenti o secretate. Anche per quanto riguarda la bibliografia contemporanea, non c’era nulla: ho fatto una ricerca bibliografica su fonti d’epoca. Importante da questo punto di vista la rivista algerina ‘Les chantiers nord africains’, che avendo sede anche a Tunisi documentava anche ciò che avveniva in Tunisia, dal 1928 al 1940”. Ma qual è il risultato di tutte queste ricerche? “È stata davvero un’emozione incredibile vedere attraverso le mie ricerche prendere forma e corpo personalità di architetti altrimenti dimenticati, ricostruirne le personalità, riportarli in vita. Accanto a un nome mai sentito si sta a costituire un corpus di opere, che racchiudono le scelte linguistiche, le evoluzioni, le personalità dell’architetto”. Un lavoro dunque di memoria, per fare in modo che queste persone e l’apporto alla città di Tunisi con le loro opere, non siano dimenticate. Qualche nome: Remo Radichino, Francesco Marcenaro, Edmond Boccara, Vito Silvia, Romeo Giudice, Noel Cappadoro, Fortunato Licata, Renato Canino…. 

Ma cosa distingue l’architettura dei francesi da quella dagli italiani di Tunisia? “I primi provengono tutti dalla madrepatria, operano a Tunisi per un periodo più o meno breve, il rapporto con la città, la cultura, la storia dei tunisini è occasionale e sono portatori di un Déco colto, metropolitano, urbano, che fa spesso riferimento a modelli pubblicati su riviste o edifici realizzati in Francia e che ovviamente occupa spazi privilegiati della città, come incroci delle grandi arterie od edifici pubblici. Vi è una grande attenzione alla composizione, intesa come uno studio attento dei rapporti competitivi sia negli alzati che nelle piante sempre molto curate. Sono professionisti aggiornati e di grande qualità. Ma tradisce a mio avviso una derivazione un po’ libresca, si capisce che sono repertori, forme e modelli che sono applicati a Tunisi, ma anche a Lion e Bordeaux. Un’ architettura astratta, che non si rapporta con il luogo”.

Quattrocchi fa scorrere delle immagini di edifici che non ci sono più.  “Invece l’architettura degli italiani era più spontanea, a contatto con i valori locali, che riesce a riassortire. Gli architetti italiani ragionano più a livello di volume, per accumulo. È una modalità che sfrutta la luce del Mediterraneo, della Tunisia. Senza contare che il maggior radicamento della comunità italiana permette agli autori di entrare in sintonia, in maniera naturale, con la tradizione locale. Un incontro felice, sincero, tra modernità e Genius loci, tra internazionalità e cultura locale. Gli architetti italiani si formano per lo più in Tunisia e non hanno esperienze all’estero significative, ma una grande esperienza sul campo. Sola eccezione Remo Radicioni, che giunge in Tunisia nel ’31, probabilmente poiché antifascista”.

Purtroppo – conclude Quattrocchi – è stato anche un lavoro frustante perché la tutela di questi edifici è inesistente. Da una parte le autorità commissionavano libri sul tema, dall’altra commissionavano la distruzione di questi stessi edifici. L’auspicio è che ci sia sempre più una maggiore consapevolezza da parte di studiosi, della popolazione tunisina e soprattutto degli amministratori, per la salvaguardia di un patrimonio tra noi e la Tunisia”.

© Riproduzione riservata 


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