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La crisi economica attuale della Tunisia è una conseguenza della rivoluzione?

Clara Capelli, economista ed esperta di Nord Africa e Medioriente, che ha lavorato per la Banca Africana di Sviluppo a Tunisi, fa il punto sulla situazione economica del Paese a dieci anni dalla rivoluzione. Una situazione dovuta a delle politiche perpetrate per decenni senza puntare a uno sviluppo e a una ricchezza equamente ridistribuita in tutto il Paese.

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L’intervento di Clara Capelli che segue è un estratto del convegno “Tawrat al karama – memorie, percorsi e analisi a dieci anni dalla rivoluzione tunisina” organizzato a gennaio 2021 dal Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa.

Le promesse della rivoluzione sono state largamente disattese nel corso di questi dieci anni, soprattutto se si parla di promesse economiche. Ma le cause strutturali non sono dovute ad essa: al contrario, l’unico modo per riposizionarsi sul sentiero di sviluppo e giustizia passa proprio dalla capacità delle voci e dell’energia della rivoluzione di farsi pratica politica ed economica.

Le proteste del 2010 – 2011, specialmente a Kasserine, Sidi Bouzid, Jendouba e nelle altre regioni dell’interno, hanno smentito la narrazione finora dominante, internamente come all’estero, di un Paese stabile, caratterizzato da dati macro economici sostanzialmente apprezzabili. Da una parte si scardinavano i meccanismi della propaganda, mettendo a nudo il carattere corrotto e predatorio del clan Trabelsi; dall’altra la geografia e le istanze delle proteste indicavano chiaramente una serie di gravissime fragilità sociali legate alla struttura stessa dell’economia tunisina.

Le profonde disparità socio – economiche tra costa e interno, a cui assocerei anche le periferie urbane come Cité Ettadhamen, Douar Hicher e così via, il carattere estrattivo delle attività economiche in Tunisia e infine l’elevata disoccupazione e sottoccupazione della forza lavoro, specialmente giovane, che si traduce a sua volta in varie forme di povertà. Negli anni più recenti si è rafforzata in Tunisia la retorica, sfruttata ad hoc da alcune forze politiche, che le condizioni di vita fossero migliori prima della rivoluzione: questo è un terreno estremamente delicato in cui avventurarsi, soprattutto perché la comparazione di dati economici pre e post rivoluzione è particolarmente complicata per il fatto che la statistica era un elemento sensibilmente politico durante gli anni di Ben Alì. Comparazioni di questo tipo sono parecchio rischiose e inevitabilmente imprecise. Cercando quindi di leggere la situazione pre 2010, dobbiamo appellarci ad altre fonti ed indicatori.

Uno dei primi segnali della rottura marcata dal 2010 – 2011 sono le proteste che interessarono il bacino di Gafsa nel 2008 (raccontate da Lina Ben Mhenni in una sua cronaca nel libro “Tunisian girl – la rivoluzione vista da un blog”) e in quelle proteste che all’epoca trovarono pochissima risonanza sui media, nonostante siano durate sei mesi. Lì possiamo già ritrovare i nodi critici delle istanze economiche della rivoluzione. Le fonti riportano che migliaia di persone scesero in strada nel gennaio 2008 contro le pratiche di assunzione clientelari e corrotte della società di stato della compagnia di fosfati, ciò si combina con il fatto che il numero dei posti, 80, era sproporzionatamente inferiore al numero di persone che aveva partecipato al concorso di assunzione, nell’ordine del migliaio.

Il focus non è la pratica di assunzione non trasparente, bensì la limitatissima capacità dell’economia della zona di assorbire, in modo dignitoso, la forza lavoro. Un problema di produttività che diventa un problema di giustizia sociale, dove il concetto di produttività non va confuso con quello di efficienza e produttivismo, che afferiscono invece all’economia neoclassica mainstream e all’apparato ideologico neoliberale. Inoltre nonostante la Tunisia sia un importante esportatore di fosfati a fine agricoli, la gestione dei proventi è centralizzata a Tunisi, senza una ridistribuzione in termini di investimenti e diversificazione. Questo è il primo punto rispetto alle problematiche strutturali: l’estrazione di risorse specialmente delle regioni dell’interno da parte dei centri di potere, senza redistribuzione delle stesse e che sia pianificata, senza interventi spot per sopire le agitazioni del momento.

Ad esempio Kasserine si rivolse come regione vittima all’IDV con l’intento di denunciare una determinata politica di stato che ha permesso sfruttamento, sottosviluppo ed emarginazione. Dinamiche molto simili si possono osservare nel sit in di Kasserine del 2016, che partì dalla drammatica morte di un manifestante salito sul palo della luce per protesta contro i risultati truccati di un concorso statale. Anche in questo caso l’impiego statale era l’unica opzione percorribile in alternativa o a un percorso di informalità ed emarginazione o allo sfruttamento nelle fabbriche in cui molte società straniere (francesi ed italiane) de localizzano la propria attività, principalmente per il contenuto costo della manodopera e per una serie di vantaggi fiscali riconducibili al cosiddetto sistema off-shore o della legge 72.

Photo by Dmitry Demidko on Unsplash

L’industria tunisina sin dal protettorato francese si sviluppa secondo dinamiche di dipendenza dal centro coloniale e queste modalità si sono perpetrate anche dopo l’indipendenza, intensificandosi attorno agli anni ’70. Il carattere marcatamente esportativo dell’economia tunisina però si è avvitato su un modello basato su delocalizzazione straniera. Siamo nuovamente in una situazione di estrazione del valore, in questo caso del lavoro, senza redistribuzione né dalla parte del lavoratore straniero né della classe locale. E questo è il secondo punto: la bassa produttività e il basso livello di innovazione, che non sono secondari perché nel sistema capitalista sono elementi chiave nelle politiche di impiego e per le questioni salariali.

All’indomani della fuga di Ben Ali ci si trovava davanti all’ambiziosa sfida di un Paese da rifare: compito difficilissimo, impossibile da portare a termine in dieci anni e per giunta nel mezzo di una transizione politica. A queste difficoltà occorre aggiungere il fatto chela Tunisia è un Paese piccolo, estremamente dipendente dalla domanda estera (export e turismo) e dai capitali stranieri e questo in un sistema di capitalismo globalizzato e finanziario, in cui le economie di sviluppo si contendono gli investitori stranieri tra agevolazioni e compressione salariale, restringe significativamente gli spazi di manovra per le politiche di sviluppo. Rende anche assai vulnerabili agli shock esogeni, come è stato per la contrazione del turismo dopo il 2010 – 2011, per gli attacchi terroristici del 2015, o come osserviamo ora con la crisi pandemica.

Bisogna rilevare la resistenza del modello politico neoliberale alle istanze di cambiamento di paradigma e di politica, aspetto che nel corso di questi dieci anni si è rilevato sia a livello di classe imprenditoriale e politica, che spesso doveva tutelare delle posizioni e dei rapporti di potere precisi, sia per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo bilaterale. Se da una parte si è riconosciuta, almeno a livello di discorso, l’importanza del promuovere interventi che rendessero l’economia maggiormente generatrice di impiego, particolarmente nelle regioni dell’interno, dall’altro le ricette di sviluppo si sono limitate a proporre il leitmotiv della promozione dell’iniziativa imprenditoriale privata, che è un componente chiave del discorso neoliberale. Il cosiddetto cambiamento strutturale è un processo che prende tempo, necessita competenze programmatiche a livello statale, che sono state purtroppo erose negli ultimi decenni, risorse pubbliche, una classe imprenditoriale locale che sappia fare investimenti produttivi e non mera estrazione ed accumulazione di rendite.

Piazza 14 gennaio 2011, ex piazza 7 novembre 1987. Photo credits Giada Frana

Gran parte della classe politica, Ennahda e governi tecnici inclusi, si è limitata a maggiori investimenti esteri e relazioni commerciali; sono venute a mancare le riflessioni politiche su punti molto più spinosi: quali settori produttivi promuovere e sviluppare, la redistribuzione regionale e i rapporti tra capitale e lavoro. Questa posizione è stata perseguita anche dalla comunità internazionale. Le condizionalità del FMI hanno ristretto gli spazi di manovra del governo tunisino: pensiamo al deprezzamento del dinaro nel 2017, che ha aggravato la dinamica inflattiva. Stiamo parlando di un Paese dipendente dalle importazioni anche per i beni di consumo: ciò ha eroso il già ridotto potere d’acquisto della popolazione.

A pagare un prezzo alto della diffusa ingiustizia sociale sono ovviamente le donne. Nel 2019 il tasso di disoccupazione femminile si attesta attorno al 22% contro il 15% maschile, ma a preoccupare è soprattutto il tasso di partecipazione alla forza lavoro, appena il 25% nel 2017 contro il 46% maschile. Dati del genere, in un’economia dello sviluppo, sono indicatori dell’esistenza di un considerevole settore informale, il che suggerisce un’esclusione delle donna dal mercato del lavoro formale e una grande vulnerabilità rispetto allo sfruttamento della forza lavoro femminile.

Un modello economico non si rifà in pochi anni e le forme di dipendenza economica a cui ho accennato sono difficili da sconfiggere o anche solo attenuare. Ma le restrizioni degli spazi di manovra non sono una giustificazione per non lavorare sui rapporti di forza di potere, per non intervenire sul mercato domestico e soprattutto sulla redistribuzione tra capitale e lavoro e regionale. Se è vero che le promesse della rivoluzione sono state disattese, è anche doveroso ricordare il lavoro che tante realtà e movimenti dal basso più o meno organizzati hanno fatto per continuare le proteste, opporsi alle politiche neoliberali e proporre concrete alternative. Le varie ondate di proteste di questi anni ci dicono che la giustizia sociale non è né una gentile concessione, né un accessorio allo sviluppo, ma un elemento cruciale”.

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1 Commento
  1. Petrelli Pompilo dice

    Tutto vero quanto detto e affermato nell’intervento di Clara Capelli, ma anche a costo di andare fuori tema del convegno, avrei puntato il dito sul fatto che dopo la rivoluzione del 2011 oltre al danno che non è cambiato nulla dal punto di vista socio-economico, la beffa della corruzione dilagante, la rivolta già nel 2008 era in embrione partendo da una pratica di assunzioni pubbliche, clientelari e corrotte nella Compagnia di fosfati, ma oggi è una piaga dagli Uffici pubblici ai tutori della legge. Altro grave problema è l’ingerenza religiosa sulla politica, l’islam, come le religioni mondiali cristianesimo, cattolicesimo, etc etc., dovrebbe fare un passo, non dico indietro ma laterale, è ben nota la storia delle religioni…, ma lasciando libera la fede le tradizioni antiche non devono interferire con il progresso socio-economico di un paese che è rimasto ai nastri di partenza. Viva la Tunisia con gli uomini giusti ed onesti ce la può fare.

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