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Subsahariani a Sfax, tra discriminazioni e solidarietà

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Il racconto che segue è la narrazione del soggiorno a Sfax di Michela Lovato, dottoranda del progetto Erc Solroutes dell’Università di Genova. Ha partecipato a questo workshop.

Un africano qualsiasi è morto qui

Camminiamo per il piazzale davanti Beb Jebli, è il 30 maggio ed è l’orario del mercato. C’è confusione, una moltitudine di persone e cose. Ci sono bancarelle di vario tipo, telefoni usati, scarpe, vestiti, borse, materiale per la cucina. Carretti che vendono the o caffè. Sulla rotonda, sul prato, ci sono donne tunisine con bambini, o gruppi di signore. Nelle stradine ai lati, gruppi di persone provenienti dall’Africa subsahariana: qualche mamma con bambino, principalmente giovani uomini e donne. 

Continuando la camminata si arriva al parco di fianco, qui degli uomini sono distesi sul prato: ne contiamo cinque, stanno dormendo. In mezzo ai movimenti caotici e ai rumori del quotidiano di Sfax, loro sono qui a riposare. Ai loro piedi, sulle grate dei muretti, sono appesi al sole giubbotti, pantaloncini e scarpe. I vestiti stesi ad asciugare raccontano che i loro proprietari hanno preso la strada del mare, probabilmente stanotte, e che sono stati respinti. Il vento è forte, il mare di conseguenza sarà stato mosso. Quando le persone vengono “intercettate” in mare dalla Guardia costiera tunisina, vengono riportate al porto di Sfax e scaricate lì. Camminano fino al parco ancora bagnati, mettono ad asciugare i vestiti zuppi d’acqua del mare e si stendono.

Uno di loro si alza e ci viene incontro, chiede di dove siamo – si chiama Lehbib ed è originario del Sudan, vive qui al parco da un anno. Cinque giorni fa ha tentato l’harqa, è andata male. Non sa ancora quando riproverà, racconta che li hanno fermati in mezzo al mare e riportati indietro. Gli offriamo una sigaretta, la rifiuta con cortesia dicendosi calciatore professionista, per le sue capacità sportive è meglio che non fumi. Indicando i suoi compagni, racconta che loro sono appena “tornati dal mare”, sono molto stanchi dal “tentativo”. 

Spiega che preparare il tentativo richiede tempo: lui ha lavorato per un anno per il mercato, per racimolare la somma per il viaggio. In questo periodo l’harqa costa tremila dinari (circa mille euro), tra il lavoro e qualche aiuto dalla famiglia è riuscito a partire. 

Harqa è il termine utilizzato per descrivere la migrazione non autorizzata: richiama il gesto di chi brucia (حرق) i propri documenti, quindi l’evidenza di non essere considerato in diritto di entrare, prima di partire per l’Europa. In Tunisia è un periodo molto teso, il discorso di Saied di febbraio ha favorito l’emergenza di forti tensioni sociali contro le comunità subsahariane presenti e il conseguente aumento di casi di violenza razzista. Lehbib alza le spalle, “Adesso ricomincio da capo, per il prossimo tentativo”. 

Il viaggio può iniziare dalle coste a nord di Sfax, direzione Lampedusa – una via più breve invece passa dalle isole Kerkennah, di fronte Sfax. Ci si arriva con un traghetto, ma è difficile entrare: la polizia limita gli ingressi ai soli residenti, turisti e pochi altri. Molte persone vengono respinte all’ingresso delle isole, senza che gli venga data un’ufficiale motivazione: è un confine che si avvicina e restringe sempre di più, anche all’interno del Paese stesso. 

Le spiagge della città riportano i resti di questi viaggi: ai piedi, pezzi di barche accatastate. Alcune in legno, principalmente utilizzate dagli harraqa tunisini, e altre in lamiera, usate dai subsahariani. In tempi di crisi, infatti, il legno è costoso e non accessibile a tutti – si sostituisce con la lamiera, che contro gli scogli si accartoccia come lattine.

Chi si affida ai trafficanti paga e aspetta di partire, in mare la speranza ha diversi gradi: arrivare in Italia o essere riportati indietro. Di contro, c’è la paura rappresentata dai cadaveri dei naufragi, alcuni trovati dai pescatori, altri arenati sulle coste, altri mai recuperati. “Due dei miei compagni di viaggio sono caduti dalla barca” racconta Lehbib, “Un attimo dopo non li ho visti più”. Al cimitero di Sfax ci sono tombe in cemento che riportano un numero e la sigla AF. Sta per “africano”. Sono i corpi recuperati dai naufragi, pochi dei molti, di chi è rimasto bruciato dalla frontiera nell’atto di darle fuoco. Un africano, uno della serie, è sepolto qui: sembra così facile morire in questo posto. Lehbib saluta con la mano e se ne va, “Inchallah ci vediamo a Roma”. Dietro di noi un furgoncino della polizia passa e molte persone si nascondono, i vestiti appesi al sole sono quasi asciutti.

Al bar, Zahre

Siamo sedute al bar a bere Coca cola e the alla menta. In ordine, attorno al tavolo ci siamo noi, Clara, una donna camerunense qui da due anni, Marius, anche lui dal Camerun, Berten, dalla Costa d’Avorio, e Zahre, donna di Sfax.

Clara ha da poco terminato la sua giornata di lavoro come acconciatrice al parco, intreccia i capelli per qualche dinar mentre sua figlia le gioca intorno. Si concede adesso una serata serena con i suoi amici del posto. 

Berten lavoricchia come muratore, racconta di aver vissuto in Marocco per due anni, facendo l’operaio tra Tangeri e Rabat. Non ha intenzione di partire verso l’Europa, si sposta tra i paesi del nord Africa e la Costa d’Avorio. Spera, allo stesso tempo, che la situazione qui non peggiori: “Nelle ultime settimane ho paura a camminare per strada. Giriamo a gruppi di almeno tre persone, diversi dei miei compagni sono stati aggrediti mentre erano da soli”. 

La comunicazione con Zahre è complicata, parla solo tunisino e giusto qualche parola di francese – quando non conosce dei termini li chiede a Marius, lo chiama “fratello”. Andiamo avanti di gestualità e il mio arabo incerto per capirci. È una signora tunisina con quattro figli e un marito malato, la figlia grande sta studiando tedesco perché finite le superiori, Inchallah, andrà in Germania. Racconta che le dispiace non sapere bene il francese, ha interrotto la scuola da ragazzina per sposarsi e da allora tira avanti casa sua e famiglia. Le modalità di comunicazione a nostra disposizione non la aiutano a spiegarci che lavoro faccia, parla di informatica e training. Ci racconta, invece, della sua amicizia con Clara, si sono conosciute al mercato l’anno scorso. Clara è arrivata qui da sola, con l’idea di alternare periodi di lavoro lì e rientri a casa. Racconta di aver vissuto più di una volta violenze sessuali sui taxi, la peggiore quando era già incinta di sua figlia. Dice che Zahre da allora la accompagna nei taxi o per la città tutte le volte che deve spostarsi, per non lasciarla sola. 

Zahre è una donna semplice, parla dei suoi figli e del clima a Sfax, poi di un gruppo che fa balli su YouTube, ci improvvisa un accelerato corso di arabo tunisino. La sua semplicità nel mostrarsi non rende giustizia a quello che racconta: in un contesto teso, intriso di violenza, carico di razzismo ed episodi di discriminazioni, lei rappresenta qualcosa di diverso. Indica casa sua, qualche palazzo dietro la piazza del mercato, dice che scrive sempre un messaggio a Clara quando esce di casa, per avvisarla che sta passando a prenderla. “Ha visto tante cose brutte”, dice a bassa voce, indicando l’amica. 

Sarebbe bello avere più tempo, più occasioni, per poter capire, chiacchierando con lei, come racconterebbe la sua presenza nella vita di Clara qui a Sfax. Per quale motivo lo faccia, come la chiamerebbe, questa forma semplice e forte di solidarietà, in un posto che appare spinto da correnti opposte. Ma dopo domani ripartiamo e, per adesso, ci teniamo buono questo pezzettino. 

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