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Tunisia, le madri dei dispersi: siamo in lutto, ma speriamo sempre di ritrovare i nostri cari

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Sognavano un futuro migliore, per se stessi e le loro famiglie. Ma un futuro probabilmente non lo avranno mai, inghiottiti dal Mare Mediterraneo prima di arrivare all’agognata meta. Giovani speranzosi, nati nella parte sbagliata del mondo, dove la mobilità è diventata un lusso che non tutti si possono permettere. Ma loro sono ancora vivi, nel cuore e nella memoria delle loro famiglie, che non smettono di chiedere la verità, di cercare i loro corpi per poter dare una degna sepoltura ai loro cari. Latifa Walhazi fa parte di queste famiglie: suo fratello Ramzi è un “harraga”, è partito irregolarmente dalla Tunisia nel 2011, all’età di 24 anni, e di lui si sono perse le tracce: “Nostro padre aveva avuto un incidente e aveva perso un piede, lui voleva aiutarlo in qualche modo, ma non riusciva a trovare lavoro. Il 1 marzo del 2011 alle 14.30 ricevo una telefonata, mi dicono che è partito per l’Italia. L’ho subito chiamato, il telefono squillava, ma non rispondeva. Mi ha poi inviato un messaggio: “Per piacere, perdonami sorella mia, sono nel mare”. Da quel momento non ho più avuto sue notizie. Provavo a chiamare, il telefono squillava, ma senza risposta”. 

Latifa ha preso in mano l’associazione creata dalla madre, “L’association des mères des migrants disparus”, “l’associazione delle madri dei migranti dispersi”: una seconda generazione che porta avanti questa lotta. L’abbiamo incontrata a Rades, cittadina distante circa 13 chilometri da Tunisi. La sua non è l’unica associazione che si mobilita per avere delle risposte sugli scomparsi, ma una delle tante che si sono create nel corso degli anni. “Dopo nove mesi è partito anche mio fratello Houssem, sempre irregolarmente, e anche lui senza dire nulla, di nascosto: voleva cercare Ramzi – racconta -. E’ arrivato in Italia, poi è andato in Francia, dove ha lavorato due anni, ed è diventato cuoco. Ora vive in Germania, è sposato, ha due figli, ma non vuole più rimettere piede in Tunisia. E’ cambiato, non è più come prima: è sempre triste, anche se ha tutto: lavoro, famiglia, amici. Suo figlio si chiama Rayen: è un nome che piaceva molto a Ramzi. Quando gli si chiede a cosa pensa, risponde “a mio fratello”. Li scambiavano spesso per gemelli, erano molto legati”. 

Latifa e la madre Fattouma

L’associazione, di cui ora Latifa è vicepresidentessa, è stata creata nel 2016 dalla madre, Fattouma Ramzi: “Siamo una piccola associazione, l’abbiamo creata perché se ci si presenta singolarmente, non si viene né ricevuti, né ascoltati, mentre se si fa parte di un’associazione sì. Ci diamo la forza lun laltro al punto che siamo diventati come ununica famiglia. Le famiglie ci chiamano e noi facciamo un dossier sui loro cari scomparsi: nome, cognome, età, luogo di partenza, foto, tutte le informazioni e dettagli possibili e li condividiamo con altre associazioni, come la Croce Rossa Internazionale. Le autorità europee non si preoccupano di noi e non ci ascoltano, ma sono piuttosto le organizzazioni europee che ci danno questa possibilità, come Alarm Phone. Mio fratello è sempre nel mio cuore, c’è come un vuoto dopo la sua scomparsa. Dal giorno della sua partenza, siamo in lutto e viviamo nella speranza di ritrovarlo. Mia madre ha problemi alla vista dovuti al troppo pianto. Ho chiamato mio figlio minore come lui. A volte mi sento arrabbiata e tradita: era il mio fratello preferito: perché non mi ha detto niente? Mio fratello maggiore avrebbe potuto aiutarlo ad ottenere un visto. L’unica spiegazione logica è la pressione dei suoi amici. Ora vogliamo solamente conoscere la sua sorte e quella di tutti i giovani scomparsi. Non mi arrenderò finché non avrò in mano la verità, per tutti quanti”. 

Intanto, le partenze non si fermano, e con loro le morti in mare: da gennaio al 31 ottobre 2023, 770 i morti e gli scomparsi (dati Ftdes, Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali), 44 mila 092 i migranti intercettati dalle autorità tunisine (tra Tunisini, subsahariani ed altre nazionalità); 15.769 i Tunisini arrivati ad oggi sulle coste italiane (dati Ministero dell’Interno). “Il caso di Ramzi data dal periodo della Rivoluzione– aggiunge Valentina Zagaria, antropologa dell’Università di Manchester basata a Tunisi, da anni impegnata nelle mobilitazioni in solidarietà con le famiglie dei dispersi -. Ad oggi, di casi degli scomparsi e dei morti di frontiera se ne sono accumulati tantissimi, è una Storia che si perpetua. Ogni scomparsa ha la sua particolarità, ma si inserisce in un percorso e in una memoria più lunga di lotta, che si tramanda di generazione in generazione, inglobando nuove famiglie. Il problema è che si continua ad andare avanti senza soluzioni, né da parte dello Stato tunisino, né dall’Europa. Si propongono finanziamenti alla guardia costiera per bloccare le partenze invece di renderle più sicure, renderle regolari e facilitare i visti”. 

Zagaria dal 2015 al 2017 ha vissuto a Zarzis, città costiera da cui partono molti giovani tunisini, per fare ricerca per la sua tesi di dottorato in antropologia: “La mia tesi di dottorato era basata sul concetto di dignità, sentimento alla base della Rivoluzione della dignità del 2011 e motore anche della harga: l’atto di bruciare le frontiere attraversandole senza documenti. È una rivendicazione che lega la Rivoluzione alle partenze, a tutte le diseguaglianze che legano l’Africa all’Europa. Le famiglie degli scomparsi non sono un caso eccezionale, ma l’apice di una situazione sociale e di una rivendicazione che si fa anche attraverso la harqa, per una vita più degna”. E continua: “Qui il primo caso eclatante che è stato mediatizzato nel periodo post – rivoluzionario è quello della Horria 302, il nome di una nave militare che a febbraio 2011 ha affondato un’imbarcazione di harraga nel tentativo di impedirgli di raggiungere l’Italia: ci sono testimoni oculari. I corpi dei ragazzi non sono stati ritrovati e il caso continua ad essere portato davanti a diversi tribunali da più di un decennio. Un altro caso che è diventato il simbolo più recente della lotta delle famiglie degli scomparsi è quello del 18/18, una barca con 17 giovani di Zarzis partita il 21 settembre 2022, poi scomparsa. Si crede che anche qui ci sia stato un incidente con la guardia costiera o la marina militare tunisina. Attorno a questo naufragio si è creato un movimento sociale incredibile, durato cinque mesi, in cui le famiglie e i cittadini di Zarzis hanno occupato la sede del  governatorato e il porto commerciale e organizzato enormi manifestazioni e uno sciopero generale”. 

Di quanto successo avevano parlato molto anche i media locali: i corpi di questi giovani erano infatti stati sepolti nel cosiddetto “cimitero degli sconosciuti”, senza avvisare le famiglie, senza nemmeno richiedere un esame del dna. Solo dopo le loro proteste, alcuni di loro hanno potuto avere una degna sepoltura e un rito funebre adeguato. “In una città come Zarzis partono tutti, anche famiglie con bambini, adolescenti sui 14/15 anni che lasciano la scuola, a volte donne sole, persone che hanno bisogno di cure mediche particolari. A Zarzis è proprio un movimento esistenziale. Dei 17 scomparsi del caso 18/18, metà erano minorenni, poi c’erano dei 20enni e vi erano anche due donne con una bimba a bordo. Le famiglie di Zarzis stanno aspettando il verdetto: hanno il sospetto che siano state le autorità tunisine ad affondare la barca. Si punta il dito contro il governo tunisino, pronto ad uccidere pur di non farli arrivare sulle coste europee, colpevole di fare gli interessi dell’Europa ed essere pronto a fermare i propri cittadini e chiunque tenti la traversata in modo irregolare, ad ogni costo. Le famiglie provano tantissima rabbia contro queste politiche di frontiera. Vedono i turisti, si chiedono perché questi ultimi vengano nel loro Paese senza visto, mentre loro rischiano di essere uccisi per andare nei Paesi da dove provengono queste stesse persone. La non reciprocità, la diversa mobilità è un’ingiustizia molto palese”. 

E conclude: “L’idea è di continuare a rafforzare queste reti di famiglie degli scomparsi ed uccisi dalle frontiere europee tra Nord Africa, Africa occidentale ed Europa. Ci sono diverse commemorazioni fissate a date specifiche, per ricordare un particolare naufragio o disgrazia. Le famiglie continuano a portare avanti un discorso politico e legale allo stesso tempo”.

L’articolo originale è stato pubblicato sul bimestrale Al Hiwar – Il dialogo nel 2023

© Riproduzione riservata 


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