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Mohamed Krit, il fotoreporter tunisino che cerca di sensibilizzare sui migranti

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E’ stato il primo tunisino a salire sull’imbarcazione della Guardia costiera tunisina e a svolgere un reportage in mezzo al mare, scattando fotografie a una barca bloccata tra le onde, più di 100 persone, soprattutto subsahariani, tra donne, bambini, neonati ed uomini. Lui è Mohamed Krit, 35 anni, fotoreporter tunisino, che a un certo punto della sua carriera lavorativa ha deciso di specializzarsi sui migranti: “Quella notte è stata la prima volta in cui sono entrato in contatto diretto con dei migranti che hanno cercato di attraversare il Mediterraneo per arrivare in Italia – racconta –. Ho cominciato a lavorare 12 anni fa su questa tematica. Sono sempre stato interessato ai temi umanitari: siamo nel Ventunesimo secolo e vedere guerre e tutto ciò che sta accadendo fa molto male. Diversi casi di migranti che ho seguito mi hanno toccato molto a livello emotivo. Con i miei reportage e i miei profili social, Facebook e Instagram, cerco di sensibilizzare sul tema: vorrei essere la voce di chi una voce non ce l’ha”.

Krit ha studiato Fotografia e Giornalismo a New York. A gennaio 2011 si trovava in Tunisia e ha partecipato alla Rivoluzione della dignità. Nel 2021 è ritornato per nove mesi a New York, per poi rientrare in Tunisia. Ha lavorato come editore con un’agenzia americana, tra Tunisia, Egitto, Libia, Sudan e Somalia e collaborato con diversi media internazionali e tunisini. Oltre a sensibilizzare sul tema della migrazione attraverso i suoi scatti, Krit, che nel 2009 ha cominciato a lavorare come giornalista diventando fotoreporter nel 2012, è anche un’attivista: “Cerco di aiutare quando posso, e di parlare anche con questi giovani mettendoli in guardia sui grandi rischi a cui vanno incontro attraversando il Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna. Di recente ho seguito Mohamed, un giovane originario della Guinea, nel suo viaggio da Bab Laghez a tunisi fino a Sfax: per fortuna alla fine ha deciso di non partire. Mi ha mandato un messaggio dicendo che le mie parole lo avevano molto toccato. Mi ha fatto piacere, che non sia morto in mare e che le mie parole siano servite a qualcosa”. Sono tante le esperienze di vita con cui Krit è entrato in contatto, storie che hanno diversi punti in comune, persone in cerca di un futuro migliore ma che spesso si trovano confrontate a discriminazioni e soprusi. “Ricordo un ragazzo di 22 anni, ha lasciato il suo Paese, la Costa d’Avorio, nel 2018: da lì è andato in Mali, poi in Algeria, in Marocco, di nuovo in Algeria per arrivare infine in Tunisia. Per otto mesi ha lavorato a Sousse come muratore, per raccogliere i soldi necessari per la traversata, ma poi a Sfax è stato fregato da altri subsahariani e ha dovuto lavorare di nuovo, questa volta a Tunisi, per mettere ancora da parte la cifra necessaria. Dopo il discorso del presidente Kais Saied a febbraio aveva perso il lavoro, ma riceveva degli aiuti dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Ora ha lasciato la Tunisia per tornare in Costa d’Avorio”. 

 
 
 
 
 
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Capita purtroppo di dover fotografare i corpi dei migranti ripescati in mare: “Mi chiedo cosa abbiano pensato nei loro ultimi momenti di vita, come hanno reagito, se hanno capito cosa stesse succedendo loro. Sono entrato anche all’obitorio di Sfax, ma non ho scattato fotografie, volevo solo vedere questo luogo, dove si trovano persone che hanno perso la vita nella speranza di cambiare il loro destino. Anche i pescatori di Sfax raccontano dei cadaveri abbandonati in mare”. Oltre a Sfax, dove in queste ultime settimane è ritornato più volte a seguito di quanto accaduto nei confronti dei subsahariani, Krit è stato anche a Medenine e Zarzis: “A Zarzis ho costruito un legame con i famigliari delle vittime, ormai mi conoscono tutti. Ho consacrato il mio tempo e le mie risorse seguendo quanto stava accadendo: non era un semplice naufragio, era qualcosa di simbolico. Un naufragio in cui avevano perso la vita giovani tunisini, spesso figli unici, appartenenti a tutte le classi cosciali. C’era Mouna, con la sua figlioletta Sajda di 14 mesi, che aveva chiesto più di otto volte il visto per l’Italia, per ricongiungersi al marito che vive e lavora là, ma senza successo, e che ha provato la via del mare, perdendo la vita assieme alla bambina. (Krit si riferisce al naufragio del 21 settembre, ndr)

Speravo che dopo la Rivoluzione il mio Paese potesse cambiare, che rispettasse i diritti dei cittadini e degli essere umani. Ma è stata un po’ una delusione. In un certo senso, è come se mi rifugiassi nella migrazione: nonostante la tristezza per le testimonianze, i feedback dei migranti mi scaldano il cuore, molti mi chiamano “non frère”, che è un termine che indica che si fa parte della famiglia. A Sfax, quando ci sono stati gli scontri, i louagisti non volevano trasportare i subsahariani. Ma, con l’aiuto di un poliziotto, siamo riusciti a trovare due louage (i taxi collettivi che collegano una città a un’altra, ndr) per le donne incinte e i loro bambini. Tutte le testimonianze raccolte in questa città sono molto toccanti: c’è chi era in cerca di un posto sicuro per la famiglia, visto che la Tunisia ormai per loro non è più considerata tale. Ci sono neonati con malattie della pelle. Persone lasciate all’aperto, nel parco, con le temperature altissime delle ultime settimane, che se vogliono utilizzare i bagni pubblici devono pagare. Sono accampati nelle due piazze della città, e poi ci sono diversi migranti che si sono spostati negli uliveti. Duecento, trecento persone senza nessun mezzo, senza soldi per acquistare cibo ed acqua. 

 
 
 
 
 
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Purtroppo penso che la situazione potrebbe peggiorare nelle prossime settimane: non si propongono soluzioni, sono abbandonati da tutti. La Mezzaluna rossa porta solo acqua e cibo, e le altre organizzazioni internazionali non fanno nulla. La maggior parte di essi non vuole più restare in Tunisia, vuole essere rimpatriato. Anche pensare di andare in Europa, con la situazione economica attuale, non è una buona idea ora: Mohamed mi ha detto che due ragazzi sono riusciti ad arrivare in Italia, ma che vivono una vita pessima”.

Ora il fotoreporter sta lavorando ad un altro progetto sui migranti: “Un libro in cui voglio raccontare ciò che sta succedendo nella sponda sud del Mediterraneo, con testimonianze di migranti sia tunisini che subsahariani. Nessuna analisi, ma il racconto dell’aspetto umano. Si parlerà anche di Libia e Algeria, e del sud Italia, in particolare modo Lampedusa e Palermo. Un mix di testi e fotografie, quest’ultime in maggioranza, scattate in tutti questi anni”.

© Riproduzione riservata


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