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Federica Perillo : la Tunisia mi ha arricchita e fatto ritornare verso me stessa

Federica Perillo, 22 anni, ha conosciuto la Tunisia per caso, durante una vacanza con la madre e la sorella. Poi il matrimonio della prima con un uomo tunisino ha reso sempre più forte questo legame. E ora la Tunisia è un luogo a cui sente di appartenere.

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« La Tunisia per me è stata un abbraccio, un ritornare verso me stessa. Ora che è difficile partire anche quest’anno, lo sento di più : ho un forte legame con questo Paese, e proprio questo legame mi fa vedere il buono di tutto ciò che ho visto lì. Ci sono dei momenti, delle cornici di vita che mi porto dietro come fossero pezzi di carne. La Tunisia non è solo bellezza paesaggistica, ma storie che si intrecciano e che la rendono viva, palpitante. Per certi versi mi ricorda il luogo in cui sono nata, Napoli, tanto sofferente e palpitante di passione, arresa al non essere mai soccorsa, con i denti sempre stretti verso un domani incerto, ma troppo luminoso da lasciare andare via ».

Federica Perillo, 22 anni, di Aosta, studentessa di Lettere moderne a Torino, ha conosciuto la Tunisia poco prima del 2010, durante una vacanza a Monastir : « Ricordo l’impatto del calore appena uscita dall’aereo, e il mercato pieno di gente. L’abbiamo vissuta da turisti. Durante quella vacanza mia mamma ha conosciuto la sorella di Ghazi, il suo attuale marito, e così poi sono entrati in contatto e dopo due anni si sono sposati ». Da quel momento, ogni estate si trascorre in Tunisia : « Ghazi è di Ezzahra. Abbiamo girato un po’ : Kelibia, Nabeul, la Goulette, Hammam lif, Tabarka. Poi nel 2014 ho conosciuto Rached, suo cugino, di Ettadhamen e ci siamo fidanzati. E’ ingegnere informatico e sta lavorando, ma malgrado ciò gli hanno rifiutato per due volte il visto turistico, per cui sono sempre andata io da lui ».

Port de Prince - Tabarka photo credits Federica Perillo

« Ciò che più mi manca della Tunisia, oltre alle sensazioni nel senso etimologico del termine, è la sensazione di aver trovato un luogo a cui appartengo : in quelle strade i miei obiettivi hanno ricominciato a ritrovare un senso. Non facevo tutto ciò che facevo perché dovevo, ma perché da quel momento avevo un fine ultimo. E tutto è iniziato da lì, con sullo sfondo quei tramonti che cantavano, quel sole che mi dorava la pelle, tra quelle persone che mi guardavano incuriosite : mia mamma e mia sorella sono scure di carnagione, occhi e capelli, mentre io sono bionda con la carnagione molto chiara e gli occhi azzurri. Nella forza di chi è oppresso e sopravvive ho sempre trovato il senso dell’esistenza, la poesia del non detto, la vera essenza dei giorni che scorrono. E io, da privilegiata, mi sono immersa in quella vita presa a morsi, in quel desiderio di riscatto, in quegli occhi che avevano fame di aver altro, di andare oltre.

La Tunisia è il sorriso delle strade, nonostante le crepe che calpesti ad ogni passo. La Tunisia è coraggio, transizione, apertura, chiese, sinagoghe, culture che si mescolano diventando un tutt’uno. Nella mia famiglia c’è questo: sangue che si mischia, che fa l’amore per diventare un tutt’uno. La Tunisia è questo per me : quell’andare oltre un limite che ci viene socialmente imposto. Io non ho mai voluto limiti, non li ho mai amati, non li ho mai inseriti nel mio bagaglio intellettuale. Il limite limita ricchezza. La Tunisia mi ha resa ricca. Se le persone sapessero quanto ti può dare un luogo, smetterebbero di essere ancorate alle loro comodità e andrebbero oltre loro stessi. E sarebbe tutto semplice, come per me lo è stato da bambina mettere le mani nel granelli di cous cous e portarli alla bocca guardando gli altri. Anzi, osservandoli. Capendoli. Perché sei a casa quando ti intrecci con le vite degli altri ».

Kelibia - photo credits Federica Perillo

« L’unica pecca ? Il modo diverso di relazionarsi : per noi i rapporti di amicizia sono fini a se stessi, mentre spesso in Tunisia no. E soprattutto tra le donne c’è molta ipocrisia. Non mancano anche i pregiudizi nei confronti degli europei  ». Vivresti mai in Tunisia ? « Per questa risposta sono estremamente condizionata dalla mia famiglia : conosco tante storie di chi dalla Tunisia ha desiderato andar via e, di riflesso, quella paura la sento. Questo perché siamo tutti estremamente condizionati dalla società capitalista in cui viviamo, una società in cui tutto gira attorno al benessere economico. Ecco perché desideriamo vivere in Paesi ricchi. Perché pensi che un domani vorrai dare tutto ciò che è necessario ai tuoi figli. La mia famiglia, anche qui in Italia, ha sempre dovuto fare dei sacrifici per darci tutto ciò che ci era necessario. Se non fosse stato per i sacrifici di mia madre, forse non avrei nemmeno potuto realizzare il mio sogno di iscrivermi all’università. Se fosse per l’amore che provo per la Tunisia, ci vivrei senza ‘se’ e senza ‘ma’. Se  fosse per tutte le volte che penso al contributo che vorrei darle, nel senso proprio di donarle ciò che ho più a cuore, il mio umanesimo, il mio amore per la storia, per la cultura, per l’incontro con l’altro, ci vivrei domani. Tenterei di legare senza limite due luoghi che in passato hanno avuto radici storiche intrecciate più che mai. Cartagine ne è l’esempio lampante. Ma tutto questo basta? Basta l’utopia? Basta la volontà, se c’è un tessuto politico tossico che taglia desideri concreti? È ciò che mi chiedo sempre. Forse allora alla tua domanda lascerei più una risposta sospesa. Aperta agli altri. Il desiderio altrui dove trova il suo limite? Cosa possiamo fare noi, per valicarlo? »

Federica gestisce una pagina facebook « Inchiostro di gelsomino », dove raccoglie i suoi pensieri. Qui di seguito un testo tratto dalla pagina

Di dove sei?

Le mie urla di neonata hanno squarciato l’aria di Napoli.

I miei occhi blu erano il prolungamento del mare di Mergellina, i miei capelli neri erano figli dell’ombra del Vesuvio. La mia città madre mi ha sputata al mondo senza però allattarmi della sua luce.

A otto mesi non ero più parte di quel teatro a cielo aperto, ma di una nicchia di vita che ha come sfondo il Monte Bianco. La partigiana Valle d’Aosta mi ha adottato ereditandomi l’amore per la giustizia e la tranquillità delle montagne in solitudine all’alba. La mia Valle è freddo che ti entra nelle ossa, una piazza Chanoux innevata con al centro un albero di Natale che si allunga fino alle nuvole, una statua di Poseidone che da bambino chiamavo ingenuamente pungi pungi per il forcone troppo appuntito. Eppure, il richiamo del sangue palpita quando ascolto Napul’è di Pino Daniele o ripenso alle urla dai balconi decorati di peperoncini rossi e panni stesi al sole, o all’odore di pizza fritta mangiata con il muso sporco di ricotta per le strade partenopee.

È ad Aosta, però, che sono stata più Napoletana che a Napoli. Al liceo, quando mi si guardava la marca della maglietta o mi si giudicava per quale lavoro avesse o non avesse mio padre, essere una Napoletana figlia di operai mi piaceva assai. Mi faceva sentire più forte di tutti i loro castelli di sabbia d’apparenze. Quando ho cambiato classe è stato più semplice. Ho insegnato parolacce napoletane mai usate in vita mia, per il solo gusto di far capire agli altri quanto fossimo in realtà legati dalle sane risate di pancia. Nel frattempo, imparavo l’autoironia per non sbucciarmi le ginocchia con spintoni di parole troppo pesanti. La napoleteinità mi ha concesso il difetto di urlare anche quando si dovrebbe parlare a bassa voce, ma anche il privilegio della soralità. Il sole del mare te lo porti dentro, è così, nun ce sta nient a fa’. Mi starete immaginando parlare in un napoletano perfetto e anche un po’ cafone, magari. E invece no, cari miei. “Si sente che sei Napoletana quando t’arrabbi…”, mi dicono qui. Eppure, se un napoletano mi sentisse parlare in dialetto, mi riderebbe in faccia. Non sono capace, nonostante io capisca ogni parola di quel che dicono gli altri. Napoli è il richiamo del sangue, ma è anche il posto in cui mi sento fuori luogo proprio perché troppo poco Napoletana per essere parte del suo folklore.

Sono troppo o troppo poco, dipende dall’angolazione in cui mi si osserva. E sono ancora più che troppo quando si scopre che a circa sette anni mi sono cibata di senso d’adattamento e d’interculturalità, portando couscous alla bocca con le mani mentre cercavo di imitare mia mamma che mi stava a fianco con i suoi grandi occhi sorridenti d’amore. Pochi anni dopo la nostra famiglia si è allargata di senso, concedendosi un altro legame con il Mediterraneo. La Tunisia è diventata la mia casa estiva e l’angolo dove ho scoperto i profumi della mia anima. L’odore di gelsomino te lo porti dentro, ad accarezzarti le guance con i piedi scalzi sulla sabbia o tra le strade caotiche della Medina del centro città. Sembra che io sia Tunisina quando sento la musica tradizionale ai matrimoni e non vedo l’ora di partecipare alle danze a suon di darbuka, o quando mangio di tutto, anche l’allush, il montone cucinato alla griglia per la festa dell’Eid, o ancora quando mi siedo per terra sul balcone a mangiare dallo stesso cucchiaio del mio pezzo di cuore. Sono però Europea, straniera a tutti gli effetti, quando guardano i miei modi e la mia carnagione troppo chiara mentre cammino con la mia famiglia dai tratti scuri. Eppure, il canto dell’imam sul cielo rosso di Tunisi è il suono che sento quando le mie palpebre si chiudono come finestre sulla notte. Perché è qui che il mio cuore ha smesso di singhiozzare per darmi respiro di pace d’attesa appagata.

Di dove sei? È una delle prima domande che ti chiedono. Le riposte sono sempre preconfezionate. Sono nata a Napoli, cresciuta ad Aosta, con il cuore in Tunisia. La verità è che non lo so nemmeno io.

È che sono io il dove, sono figlia dell’altrove. Ho radici che si radicano dalla mia schiena fino a risucchiare linfa dal cielo.

Abito lì dove i miei occhi traboccano di vita e dove i confini si dileguano nel sentimento ingiustificato.

Sei troppo o troppo poco. Non importa. Non ho pretese di confini. La terra non mi appartiene.

La verità è che è lei ad appartenermi. Ed io non le chiederò alcuna carta d’identità.

© Riproduzione riservata

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